La penna degli Altri 22/06/2019 16:55

Non è sempre colpa di chi brucia le bandiere

Francesco Totti si dimette dalla AS Roma, conferenza stampa nel salone d'onore del CONI

IL FOGLIO (U. ZAPELLONI) - Non ci sono più le bandiere di una volta. Quelle che restavano avvinghiate all’asta, anche se fuori soffiava una bora come solo a Trieste sanno che cos'è. Oggi le bandiere vengono ammainate come se nulla fosse. Nemmeno riposte con cura come si vede nei film a stelle e strisce quando muore un militare, non spiegazzate, maltrattate e qualche volta pure bruciate. Ogni tanto è anche colpa loro, delle bandiere s’intende, perché credono che basti restare lì nell’aria con la loro storia, le loro memorie. Vorrebbero vivere di ricordi e coni ricordi, ma oggi tutto viene frullato nel tempo di un Whatsapp... Francesco può anche dire: “I presidenti passano, gli allenatori passano, i giocatori passano, le bandiere non passano: quelle no”, ma poi la realtà dei fatti è diversa. E lui lo ha provato sulla sua pelle giallorossa. E prima di lui la stessa sorte era toccata a , un altro che ha avuto solo la Roma nella sua storia.

E vogliamo parlare di Del Piero, costretto a girare il mondo senza pace perché un posto per lui non c’era... Un destino che molti anni prima era capitato anche a Beppe Bergomi, un altro che aveva vissuto la sua vita da zio tutta in nerazzurro e che ancora oggi, pur essendo diventato un ottimo commentatore super partes, è identificato con quei colori. Paolo Maldini ha dovuto aspettare due cambi di proprietà prima di tornare nel suo Milan, all’inizio con un ruolo da studente e ora con un profilo da professore con tutti i rischi che ne conseguono. Potrà crescere ancora di fianco a Zorro Boban, che in Italia è stato sì rossonero, ma meno bandiera di altri, e che comunque, prima di tornare, ha seguito un master accelerato alla Fifa dove non ha fatto solo la bandiera (dei calciatori). In compenso il Milan ha un discreto bilancio di bandiere bruciate in panchina: Seedorf, Inzaghi, Gattuso, ma quello è un altro discorso.

Se una bandiera sceglie la carriera dell’allenatore, sa bene che il suo destino difficilmente lo porterà a sventolare prima del palio di Siena. Al massimo potrebbe finire con l’interpretare la parte del cavallo. Ovviamente scosso. Le bandiere, come ci sta raccontando anche Sarri, non possono restare sedute in panchina. Gli allenatori sono professionisti e vanno dove li chiama un presidente, non dove ci sono i loro vecchi tifosi.

Questa lunga estate 2019 rischia di diventare molto calda per le bandiere. Tra quelle ammainate e quelle che stanno prendendo aria. L' ha richiamato in squadra Oriali che il suo percorso dirigenziale ha imparato a farlo anche in azzurro, dove con Mancini stava benissimo: non ha saputo resistere al richiamo della fede. Che nel suo caso è nerazzurra. La di Commisso non si accontenta di Antognoni già esibito con orgoglio dai Della Valle e sta per rimettere in squadra Batistuta con un ruolo tutto da definire. Il Chievo non sì è lasciato sfuggire Pellissier, cominciando a farlo studiare da dirigente. Angelo Peruzzi ha rinnovato fino al 2022 come della Lazio che una bandiera ce l’ha anche in panchina (a Simone è andata meglio che a Pippo) pur avendo rischiato lo scippo. Il portierone interpreta la parte del collante tra squadra, società e tifosi. La squadra la fanno Lotito e Tare, lui si accontenta, ma non è lì a far tappezzeria.

A voler vedere bene sembra finita la stagione dei calciatori che fanno tappezzeria, come le ragazze bruttine alle feste degli adolescenti (quando per fortuna sì socializzava con i lenti e non con i social). Il calciatore messo lì per lo sponsor, la Fondazione della società, i tifosi, la comparsata in tv senza trappola ormai sta passando di moda. Resistono Franco Baresi e Javier Zanetti, le bandiere di Milano. Franco è brand ambassador e va benissimo. I tifosi ancora impazziscono per una foto con lui. Ci ha provato a fare il ds al Fulham, ha resistito 81 giorni, ha capito che non era il mestiere per lui. Ci ha provato anche ad allenare la Primavera, ha capito che non era per lui. Bravo a riconoscere i suoi limiti come era bravissimo a chiudere i buchi nella difesa degli Immortali. Zanetti è ancora vicepresidente nerazzurro, ma il suo ruolo non è molto diverso da quello di Baresi. Ha studiato, si è applicato, ma poi ha preferito restare un po’ defilato, ininfluente sulle scelte della società. Quello che non ha voluto fare. Lui il ruolo del direttore tecnico voleva interpretarlo per davvero, anche se forse avrebbe dovuto rendersi conto che in certi ruoli non basta essere stati dei grandi, dei grandissimi. Alle bandiere, abituate ad avere avuto tutti ai loro piedi, spesso manca l’umiltà di ricominciare la vita senza la maglia sulla pelle, scordandosi che fuoriclasse si nasce, ma grandi dirigenti sì può anche diventarlo. A Monaco ne sanno qualcosa perché al Bayern i vari Hoeness e Rummenigge li hanno a studiare prima di promuoverli... [..]

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