La penna degli Altri 18/06/2019 16:08

IL PUNTO DEL MARTEDI' - DI CARO: "Totti lucido, spietato e innamorato: addio che fa male a tutti" - PADELLARO: "E' il funerale della Roma americana" - BECHIS: "Caso da manuale, un club non si amministra così"

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LAROMA24.IT - Terremoto. Uragano. Tsunami. Più semplicemente una catastrofe naturale, nel senso più letterale del termine. Questo ha rappresentato la conferenza stampa di , che ha sancito il suo addio alla Roma facendo terra bruciata alle sue spalle e rifilando più di uno schiaffo alla dirigenza giallorossa. La cui immagine, dopo il fiume in piena del Salone d'Onore del Coni, ne esce fuori devastata.



Ecco i commenti di alcuni degli opinionisti più importanti della stampa, pubblicati sulle colonne dei quotidiani oggi in edicola

 

GAZZETTA DELLO SPORT (A. DI CARO)

Roma non bruciava così dai tempi di Nerone. Ed è stato un altro imperatore, , che pure l’ama più di ogni altra cosa, a demolirla, con parole, concetti, rivelazioni e retroscena, descrivendo un ambiente dove in assenza del presidente proliferano cattivi consiglieri che vogliono il male della Roma, trame, vendette, e un’antiromanità e un antiromanismo di cui in questi anni ritiene di essere stato vittima.

Come un Giano Bifronte, ha mostrato due profili. Il primo: lucido, quasi spietato, «trasparente» come ha sottolineato spesso - fino ad essere corrosivo, nei confronti del presidente (), del suo «consigliori» (Baldini) del vicepresidente () e parte di Trigoria con dirigenti (più o meno in prima linea) e giocatori visti «ridere e godere dopo le sconfitte». A salvarsi solo Fienga che lo voleva Dt, col rischio che questi attestati pubblici di prima e poi diventino per il un involontario abbraccio mortale: non lo meriterebbe. Ma c’è stato anche il profilo del più bello, tenero e innamorato della Roma quello che: «Preferivo morire», «È come staccarmi da mia madre», «Andrò con da tifoso in », «La cosa più bella di Roma? I tifosi della Roma». Una cosa è certa, al di là delle discussioni sulle sue presunte indolenze o partite di padel o di calcetto non in linea con un alto ruolo dirigenziale, ama la Roma e la conosce nei suoi particolari. Anche se a qualcuno, nella società e non solo, ieri il suo è sembrato un «amore tossico».

La Roma ritiene molte ricostruzioni di esagerate o addirittura fantasiose. Entrare nel merito dei singoli episodi ha il senso della vivisezione del cadavere. Ci concentriamo su altri due punti. 1) Questo addio rappresenta una grande occasione perduta. Ieri per la prima volta nel suo slang romanesco, magari fermandosi a ragionare sul verbo giusto da usare, è sembrato avere la solidità di un vero dirigente. Ha rimarcato le sue competenze - sottolineando come avesse bocciato uno dei flop di mercato (Pastore) -, e spiegato le cose che andrebbero fatte a Trigoria e dette ai tifosi. Forse se tutta questa fermezza fosse uscita mediaticamente prima o percepita meglio all'interno, avrebbe avuto il ruolo che cercava a furor di popolo. O forse l’avrebbe potuto pretendere chiamando lui stesso , chiarendo ruolo e futuro, senza attendere inutilmente di essere chiamato. Perché il ruolo che richiede non investe solo l’area tecnica ma anche le scelte economiche del club. E’ mancata la giusta mediazione? Forse sì. Serviva trovare una sintesi tra romanismo e gestione aziendale. Di certo questo addio è un grande autogol per tutti.

2) da una parte ha demolito la Roma attuale, dall’altra ha aperto una finestra su una Roma futura. Il suo è stato un arrivederci, ma con un’altra proprietà, perché «la Roma piace a tanti». Inutile dire che è stato uno dei passaggi più indigesti per la società e non solo per la sua quotazione in Borsa. Una ipotesi su Malagò futuro presidente non è stata ideale vista la location messa a disposizione dal presidente del Coni suo amico. Ma da oggi sul futuro di e su possibili cordate si riempiranno pagine e trasmissioni di radio e tv. Si apre per la Roma una fase non facile da gestire. Secondo alcuni ha preso l'ultima scialuppa per scendere dalla nave. Secondo altri sa già chi sarebbe pronto a rilevare la Roma. Per altri ancora invece il suo è stato solo l'addio doloroso di un amante ferito. Anzi «pugnalato». «Passano i presidenti, i dirigenti, i giocatori, ma le bandiere no», ha detto ieri. Difficile ancora a credersi ma dopo quasi 30 anni le parole e Roma si separano. Per quanto si vedrà.



IL MESSAGGERO (M. CAPUTI)

Ho capito improvvisamente che Francesco stava facendo un salto di qualità. Da grande giocatore, da fenomeno del calcio, più parlava più e più si stava trasformando, involontariamente, in un'altra figura mitica di cittadino romano: Marco Tullio Cicerone. Non esagero. La conferenza stampa di , come una delle famose arringhe di Cicerone, si è colorata con i colori della Storia. Quella dei momenti decisivi della Repubblica romana, poi dell'Impero. Quando le parole di un uomo affrontano i grandi temi della sopravvivenza di un'ideale. E' vero, si è parlato di , di , di Baldini, delle beghe, delle pugnalate, delle porcate. Lo sapevamo già. O lo sospettavamo. Quello che non avevamo ancora intuito fino in fondo è che è stato scelto dal destino per difendere non solo la Roma Calcio, quella dei tifosi, quella della fede giallorossa, ma per farci riflettere su Roma, come entità, come valore, e su come difenderla dai suoi nemici. Perché Roma ha tanti nemici, tanti detrattori. Piccole persone che la invidiano e che non l'hanno mai accettata.

Vado oltre. Nelle parole di si sentiva Cicerone che parla al popolo romano, ma anche Shakespeare, quello del Giulio Cesare, quello della straordinaria orazione funebre di Marco Antonio che inchioda i cospiratori alle loro responsabilità. Grande , grande e lucida visione di un mondo romano che vacilla ma che lui difende, contro tutto e contro tutti. Le sue parole valgono per il misero mondo del pallone venduto ai soldi, ma valgono anche per la misera politica che umilia Roma. Nani che schiaffeggiano un gigante. Che deridono la sua storia. Che hanno portato i nostri cittadini alla rassegnazione. Non avevano fatto i conti con un ragazzo di Porta Metronia il quale con parole semplici, trasparenti, ha rimesso a posto le cose. Usando, forse senza rendersene conto, la metafora del calcio ha smascherato le ipocrisie del potere. Quello con la P maiuscola. Francesco ha detto: per governare Roma, per rilanciare Roma, per difendere l'onore e il passato di Roma, servono persone che amano Roma. Non dei mercenari. Roma non è una azienda dove l'Amministratore delegato deve essere soprattutto capace. Roma non è un valore commerciale, è un sogno, un ideale, una visione del mondo. Chi non ne conosce i fondamentali deve farsi da parte.

Diceva Goethe che solo a Roma ci si può preparare a comprendere Roma. Non da Boston. Ma nemmeno dalle poltrone della politica (da destra a sinistra) che cerca consensi con le bugie. Francesco ha detto: per parlare con i romani bisogna sempre dire la verità. Perché i romani capiscono, perdonano, aiutano, dimenticano, ma a una condizione: non vogliono essere presi in giro. Non vogliono falsità. Essere romano consiste nell'essere cosciente dei picchi della storia e dei suoi declini. I romani hanno attraversato tutte le stagioni. Ma hanno sempre rialzato la testa. ci ha detto: spazzate via chi non vi ama, perché vi sta sicuramente tradendo. Una superba, semplice, talvolta ingenua, ma autentica e potentissima arringa sul valore della romanità. Grande . Anche di vita.


IL TEMPO (F. BECHIS)

Un paio di ore prima della annunciata conferenza stampa di sul proprio profilo la A.S. Roma scriveva; «17 giugno. 18 anni fa diventavamo Campioni d'Italia per la terza volta», e sotto partivano le immagini dei 3 goal con il Parma che avevano consentito di cucirsi lo scudetto sulla maglia, Il primo - il 13° in stagione - era proprio di che già allora faceva il capitano della squadra alla testa di gente come Gabriel Batistuta, Vincenzo Montella (autori degli altri due goal), Damiano Tommasi, Vincent Candela, e tanti altri. Quel ricordo in una giornata come quella di ieri è sembrato un suicidio societario: diceva che sono passati già 18 anni dall'ultima volta che la Roma ha vinto uno scudetto e che invece di ripetersi come accadde nel 2001 quest'anno la squadra è finita al sesto posto in campionato, fuori pure dalla .

Non solo: era l'ultima immagine conservata a Trigoria di una Roma che vince, oltre ad essere non solo la bandiera, ma l'anima stessa della società. Ieri siamo arrivati a un divorzio fra Francesco - che in questa città è una sorta di San Francesco e conta di più di quello che sta Oltretevere - e James Joseph jr, il presidente della Roma che a Roma non si vede mai. Come in ogni divorzio dove il cuore è sanguinante sono volati i piatti e partiti sberloni tremendi, Li troverete tutti in queste pagine, quindi non li ripeto. Ne cito due per dare l'idea: Francesco ha detto in conferenza stampa che nello staff di c'è chi esulta più per le sconfitte che per le vittorie (in effetti scarsine quest'anno) della squadra. Quelli in un comunicato ufficiale gli hanno replicato che per fare il dirigente bisogna imparare a lavorare, come se fosse uno sfaticato. Riassumo anche la sostanza del divorzio: Francesco dice che in società non gli facevano proprio toccare palla, e che era burla inutile sentirsi proporre in extremis la qualifica di direttore tecnico, quando manco lo hanno consultato per assumere il nuovo allenatore della squadra. La società replica che lui non era preparato per un incarico manageriale di quel livello (ma glielo hanno offerto essendo pazienti... ).

Non mi infilo fra i piatti che volano, perché altrimenti il lettore non ci capirebbe nulla. Prima di distribuire patenti di competenza in giro, chiederei a e ai suoi che capacità manageriali abbia dimostrato un team che nel giro di un mese si è perduto in due tunnel senza uscita come quelli del caso e del caso . O lavori per la Lazio, o è impensabile che dei manager riescano a distruggere valore, simboli e bandiere di una società di calcio in questo modo rompendo il rapporto con quella tifoseria che garantisce gran parte delle entrate societarie. E un caso da manuale di come non si amministra una società quotata che andrebbe insegnato in ogni facoltà di economia.

Non sono un tifoso giallorosso: sono nato e cresciuto a Torino da juventino. I miei tre figli però sono nati a Roma e il primo maschio è sfegatato romanista. Ai padri toccano doveri, e quando era piccolo talvolta lo portavo allo stadio con la maglia di . Ricordo la sera in cui entrai con lui all'Olimpico, sentendo i cori, vedendo i colori e avvertendo il calore dei tifosi mi sono commosso: non avevo mai visto nulla di simile. Dico una bestemmia per un tifoso: non ho faticato (solo negli incontri di ) a scattare în piedi esultando con il figlio quando o qualcun altro dei suoi segnava. Roma è una città così: tutta cuore, vibra di sentimento ed è impossibile non esserne contagiati e rapiti anche al di là di ogni razionalità. Ci si innamora perdutamente di Roma. E non solo è romano fino alla radice dell'ultimo capello, ma è il testimonial naturale di questo. Lo capisce chiunque all'estero, come l'hanno compreso in questi anni perfino i tifosi di squadre avversarie. Non l'ha capito , per un motivo molto semplice: in questa città non vive e non soggiorna nemmeno da turista per caso. Si è infilato in una avventura finanziaria come se la As Roma fosse una qualsiasi società per azioni, e la osserva da conti economici e diagrammi che nulla raccontano di vero. Senza anima quella squadra non ha valore nemmeno economico, e l'anima sono i e più di ogni altro . È un grave errore economico averlo fatto scappare così e consegnarlo a un altro destino. Non si può davvero permettere. Sia il primo a ritagliare il tagliando qui in pagina e inviarlo come supplica al nostro indirizzo di posta elettronica: tottitorna@iltempo.it.

P.S. A Francesco ieri è scappata una battuta infelice nei confronti del nostro Alessandro Austini (sostiene che solo il 5% di quello che scrive sia vero). Naturalmente noi come tutti possiamo commettere errori, ma il mestiere lo facciamo sempre con professionalità, raccontando fatti talvolta graditi e altre volte sgraditi. Non posso concedere a nessuno di metterlo in dubbio.



LA REPUBBLICA (L. CARACCIOLO)

Vi sono squadre di calcio. Poi vi sono squadre di calcio  che sono insieme comunità spirituali e simboli universali. Roma, nome che per definizione parla urbi et orbi, è fra queste. La Roma, squadra che dal 1927 ne espone i colori, è quindi non solo patrimonio della città ma  riferimento di appassionati d’ogni cultura e latitudine. Come testimonia lo smisurato arcipelago di club che le si intitolano nei cinque continenti, in ciascuno dei quali c’è almeno una città chiamata Roma (13 solo negli Stati Uniti). Fino a ieri si poteva dare per scontato che di Roma la Roma avesse incorporato la proverbiale eternità. Da oggi non più.

«I presidenti passano, le bandiere restano», ha stabilito  , annunciando alla città e al mondo il suo  divorzio dall’Associazione Sportiva Roma, voluto con  tenacia degna di miglior causa dai suoi attuali (ir)responsabili. Purtroppo non è affatto scontato. Quello di ieri non sarà l’ultimo atto dello smantellamento della  società giallorossa, radicata in quasi un secolo di storia  povero di gloria (tre scudetti, un campionato di B, nove  Coppe Italia, due Supercoppe italiane, una coppa delle Fiere e un Trofeo italo-inglese) ma delirante d’amore.  Cieco. Talmente cieco da non voler vedere come in pochi anni un’incredibile cabala di incompetenti e faccendieri, apparentemente capitanata da un signore che non ha  quasi mai messo piede a Roma e che ci auguriamo abbia il buon gusto di continuare in questa simpatica abitudine, si sia dedicata a sventrare l’oggetto appena acquistato. Parola d’ordine: deromanizzare.

Come se l’identità di una squadra/comunità fosse  accessorio sacrificabile a una presunta modernizzazione.  Se la parola identità non dice nulla a chi si occupa solo di  soldi – male, com’è inevitabile per chi solo di soldi  s’interessa – traduciamo in marchio: perché accanirsi  contro il marchio senza il quale la tua azienda non esiste?  Che senso ha la Roma se gli togli Roma, ovvero e , senza dimenticare il grande gentiluomo e  molti altri? Nella tragedia sportiva a noi tifosi non sono state  risparmiate le comiche. I metodici acquisti a cifre  vertiginose di giocatori rotti o autopensionati, la svendita  di campioni che poi hanno stravinto altrove e che  comporrebbero una squadra degna di competere per  qualsiasi titolo internazionale (chiedere a e ),  la frenetica rotazione di pseudo-dirigenti subordinati a un  superpresidente-ombra peregrinante fra metropoli albioniche e sudafricane. Persona colta, intelligente, che ha deciso di passare alla storia come l’uomo che fece fuori .

Il tutto per che cosa? Lo “”, ci è stato giurato. Problema: non è uno stadio e non è della Roma. Quanto al progetto edilizio: l’impianto sportivo, concepito in una delle aree più malsane e impraticabili della periferia romana, è strumentale ad altre cubature. Quanto alla proprietà, questa dovrebbe affittare alla Roma il campo e i suoi servizi. Nulla a che vedere, in un senso e nell’altro, con l’idea di dotare la Roma di un impianto proprio. Operazione resa ancor più  triste dal malgoverno capitolino: mentre si discetta di un progetto  insensato, il magnifico, glorioso Stadio Flaminio, in pieno centro, viene lasciato diroccare in rovina. C’è ancora speranza? Il messaggio di è chiaro: trovatemi una proprietà vera e tornerò. La trovi chi può. 


CORRIERE DELLO SPORT (I. ZAZZARONI)

Avevo già vista, quella strana espressione nei suoi occhi. Avevo già visto quello sguardo così fiero, vivace, beffardo. Soltanto uscendo dal salone d'onore del Coni mi sono ricordato dove e quando. All'Olimpico, quindici anni pena, Roma- 4-0. Uno sguardo identico aveva accompagnato un gesto indimenticabile e anche sgradevole, ma molto romano: le quattro dita allungate, il movimento della mano che stava a significare: "Quattro, e a casa!" "Quattro, e a casa" l'ha ripetuto ieri, . Ma quattro, stavolta, non erano i gol segnati, bensì i dirigenti altrettanto segnati di una Roma che lui, con foga, decisione, l'ironia di sempre e le palle quadrate ha illustrato e scorticato viva.

Solo due persone ha voluto salvare: , che proprio lui aveva scelto per sostituire e Guido Fienga, che però ha descritto come un dirigente pieno di ottime intenzioni ma disattivato sulla parte tecnica da Boston e Londra e Baldini. è stato invece liquidato con due parole e tanto sarcasmo (rivolto alla platea "perché ridete?"). Inquietante ciò che ha detto su Trigoria (già ampiamente sputtanata a suo tempo da ), definita una sorta di rifugio per anime sporche. E sul nuovo stadio ha posato la prima pietra. Tombale.

Da ieri, senza alibi, la Roma non è più la Roma. E' un'altra cosa, è una società che davanti a sé ha due strade: la ristrutturazione sulla base di principi, valori e uomini finalmente in grado di decidere autonomamente, oppure la cessione, l'uscita di scena, come inducono a pensare i recenti sfracelli e gli interventi di Franco Baldini, un repulisti d'autore. La terza via, ovvero la conservazione di tutti i difetti elencati in modo molto chiaro da , non è più praticabile. 


IL FATTO QUOTIDIANO (A. PADELLARO)

Il lutto si addice ad Elettra ma anche alla Roma che celebra - dopo il campionato disastroso, l'esclusione dalla , lo stadio fantasma, il cupo addio di -, il funerale definitivo: quello della gestione americana. Officiante, e insieme auto vittima sacrificale, che nell'immolarsi nel giorno in cui avrebbe "voluto morire" annuncia la possibile resurrezione in quel di Trigoria, magari con una "nuova proprietà". Non proprio nell'anno del poi, a leggere controluce (ma mica tanto) alcuni passaggi della fluviale conferenza stampa.

Ospitata, non a caso, nelle sale di quel Coni, il cui presidente Giovanni Malagò è già candidato da misteriose cordate a guidare la Roma del futuro. Ipotesi di acquisizione contestate dai vertici societari che rischiano di trasformare lo scontro nella guerra atomica. E soprattutto politico l'addio-arrivederci dal numero 10, capace di parlare come pochi il linguaggio della trasparenza. Forse in alcuni passaggi terra-terra ma proprio per questo implacabile nel mettere infilai tanti sassolini e macigni accumulati in questi due anni da dirigente inutilizzato. E che adesso si dovranno digerire tutti coloro che lo hanno escluso dalle decisioni che contano, a cominciare dall'uomo nero (ma sarà davvero così?) Franco Baldini.

Micidiale, , soprattutto nel fare emergere, per contrasto, la pochezza imprenditoriale della company responsabile di avere buttato nel cestino, per non dire peggio, un gioioso brand universale come quello dell'unico, vero . Meritandosi la disistima non solo dei tifosi feriti nei sentimenti ma anche - qualcuno già immagina - del business internazionale di cui a ragione si sentono parte. Purtroppo sfiancati da questa infinita quaresima gli appassionati giallorossi (parlo per me) vorrebbero tanto che una fine così tormentata della story impedisse almeno un tormento senza fine. Per questo dopo aver sottoscritto l'altro ieri un insensato abbonamento mi iscrivo alla modalità Proietti. E dunque non accarezzo più sogni di gloria ma come Gigi "mi accontenterei, diciamo, di una squadra interessante". Quanto a Francesco non sopportavamo più di vederlo inquadrato sugli spalti silenzioso e triste perché lo sentivamo lacerato dal desiderio di rompere e da quello di restare. Alla fine ha scelto molto soffrendo e, in fondo, ha scelto anche per noi. Che abbiamo rotto ogni legame con chi non ha saputo rispettare la nostra storia. Ma che restiamo e resteremo legati a quella maglia come lo resteranno Francesco e Daniele. Perché questo, a loro e a noi, non ce lo può togliere nessuno.



IL GIORNALE (F. ORDINE)

Nemmeno una lacrimuccia ma una voglia matta di spiegare, rispondere per un tempo infinito alle domande e poi quella chiosa («andrò a vedere qualche partita in ») che negli Usa deve aver avuto il sapore di una minaccia. Questo è stato l'ultimo , lucido e glaciale, l'esatto contrario di quello assalito e vinto dall'emozione il giorno in cui lasció il calcio immaginando un futuro da dirigente meno avvilente. Ieri, semmai, Francesco ha regolato i conti con la letteratura del suo personaggio e ha schiuso le porte al nuovo educato dall'esperienza amara di questi mesi vissuti senza nulla contare e ha presentato tutti i dettagli delle sue rare iniziative.

Un solo cedimento ha avuto, in effetti, ma l'ha vissuto con grande dignità. «Era meglio morire», ha confessato. Ma gli veniva dalle viscere, chissà quante volte l'ha ripetuto alla moglie che l'ha accompagnato, fiera, a questo passo che è un grande gesto d'amore e uno scatto d'orgoglio del grande campione. Invece che vivacchiare ai bordi della Roma, senza poter intervenire su nessun argomento, meglio chiudere cosi tra cento quesiti e risposte sincere, appuntite come freccette.

Una sola volta è entrato in azione da dirigente e stava per realizzare un altro dei suoi gol storici che avrebbero mandato in visibilio i curvaioli e i romanisti evoluti, quelli che hanno già riempito le bacheche del web. Ha prenotato , l'ha convinto, l'ha trascinato dinanzi al vertice societario prima di scoprire che i programmi avrebbero suggerito il no deciso e immediato e la corsa a Zorro Fonseca. L'uomo è stato persino sorprendente, il dirigente non ha avuto dubbi quando ha capito che dietro il benservito a c'era un messaggio in codice. E invece di aspettare la raccomandata a casa ha spedito una mail: poche righe. Molti invece i dettagli: il più inquietante di tutti quel «ridevano dopo le sconfitte» che diventerà il fiocco di neve destinato a diventare una valanga per l'attuale proprietà della Roma e i suoi rappresentanti.

Una sola raccomandazione sembra inevitabile: non deve mettersi la parrucca per andare in . Perché lui sarà sempre . Degli altri perderemo la memoria. In effetti è stato un arrivederci, quello di , declinato in modo elementare con l'amore che solo un ragazzo nato e cresciuto romanista poteva essere in grado di esprimere. «Tornerò con un'altra proprietà», ha promesso. E magari scopriremo tra qualche mese che questo è l'inizio di un'altra storia. Tutta da scrivere e da immaginare.


CORRIERE DELLA SERA (M. SCONCERTI)

Tra le tante cose dette da ne ho trovate molte giuste, alcune corrette, altre meno, ma nessuna capace di spezzare un rapporto come il suo con la Roma. Conosco Baldini, non è un uomo nero. Non può essere lui il nemico, fra l'altro troppa la differenza di peso. si dovrebbe chiedere semmai perché preferisca i consigli di Baldini ai suoi. L'impressione è che continui a vedere la vita da un campo di calcio, dove tutti gli passavano la palla e lui era il migliore, il più ascoltato. Da giovane dirigente devi ricominciare, non c'è un continuum, è un altro mestiere. Questo ho sentito da , un elenco di disagi comuni esasperati dal suo essere stato.

I giocatori hanno una vita rovesciata, si è vecchi a 35 anni e giovani a 50. Questo li porta a una sindrome, la paura di non farcela, di perdere soldi e privilegi. Del Piero, Baggio, , , decine di altri, sarebbero tutti ottimi candidati alla presidenza federale o a un'altissima manovalanza nel calcio. Ma dovrebbero esporsi, uscire dal loro essere una bandiera per professione. E questo letteralmente li spaventa. Vogliono correre paralleli alla vita o guardarla sdegnati dalla nuova solitudine. Anche in avverto questo spavento. Troppe parole per esprimere un disincanto naturale, troppe accuse gridate, nessuna autocritica. Tutti sintomi della paura di vivere.