La penna degli Altri 24/03/2019 13:42
Dagli stadi della A alla disoccupazione: un Tfr salva-arbitri
LA REPUBBLICA (M. PINCI) - Non un vero reddito di cittadinanza, come lo aveva battezzato il presidente dell’Associazione arbitri, Marcello Nicchi. Ma una manovra per “salvare” i fischietti a fine carriera. La Federcalcio e l’Aia stanno lavorando a una sorta di ammortizzatore sociale per chi smette di arbitrare. Servirà a evitare altri “casi Gavillucci”, l’ex arbitro di A dismesso, cioè mandato in pensione, che ha avviato una lunga battaglia a colpi di carte bollate con l’Associazione per ottenere il reintegro, dopo essere rimasto senza lavoro e senza fischietto. Si tratterà di un “accompagnamento” di circa 3 mila euro al mese in cambio di alcune ore di servizio nelle sezioni Aia, per consentire ai tanti direttori di gara di Serie A o Serie B che hanno lasciato il lavoro per dedicarsi all'arbitraggio, di non trovarsi - una volta dismessi - senza occupazione né reddito.
Il motivo è semplice: arbitrare nei massimi campionati italiani è gratificante, usurante e ben remunerato: un arbitro di Serie A guadagna mediamente 110mila euro all'anno lordi, circa 60mila netti. Un arbitro top, di primissima fascia, può arrivare ai 150 lordi, circa 100mila netti (in Germania prendono quasi il doppio). I compensi si dividono in due parti: una quota come rimborso spese per le partite (3.800 euro a partita l’arbitro, 1.500 euro il Var). La seconda per i famosi diritti d’immagine, che vanno dai 45mila euro degli esordienti alla prima stagione, fino ai 72mila degli esperti e gli 80mila degli internazionali. Cifre fisse, che servono a coprire tutti quei giorni in cui è richiesta la presenza fuori dal campo, come i raduni e gli stage formativi, in Italia o all'estero. Le disponibilità che un arbitro deve concedere sono aumentate esponenzialmente, si sta fuori di casa dai 130 ai 180 giorni l’anno, un internazionale non meno di 200. Le designazioni per il solo campionato vanno dal venerdì al lunedì, e spesso serve restare una notte o arrivare il giorno prima. Senza contare poi turni infrasettimanali, Coppa Italia, eventuali coppe europee: conciliare occupazione fissa e arbitraggio ad alto livello è diventato impossibile. I problemi sociali ovviamente si ripercuotono pure su di loro. Chi fa un lavoro da libero professionista - Rizzoli, l’attuale designatore, ha uno studio d’architettura - riesce faticosamente a non perdere l’impiego. Molti altri, invece, arrivati ai 30 anni devono fare una scelta: mantenere il posto di lavoro o continuare ad arbitrare. Tanti, in Serie A, erano impiegati, dipendenti, e al loro lavoro hanno dovuto rinunciare. Per carità, gli anni di arbitraggio fruttano cifre più alte di quelle di un normale lavoratore subordinato. Ma la carriera ad alto livello dura poco: sette o otto anni, se va bene una decina. Non abbastanza per arricchirsi, né per vivere di rendita. E col “dopo”, per molti iniziano i problemi. Da questa necessità nasce l’idea di quello che, tra gli addetti, viene chiamato “il Tfr degli arbitri”. Aia e Figc stanno definendone i criteri (possibile sia a scaglioni tarati sull’ultimo anno di carriera) ma le idee sono chiare: durerebbe non più di 2 anni e si interromperebbe appena l’arbitro avesse un nuovo reddito. A beneficiarne non sarebbero poi molti, visto che ogni anno ne vengono dismessi 2 in A e 5 in B. L’ultimo anno sarebbe costato poco più di 100mila euro: briciole, nel dorato mondo del pallone.