LA REPUBBLICA (E. AUDISIO) - Dimenticatevi tutto: Camus, Handke, La paura del portiere prima del calcio di rigore, e anche Dino Zoff: «Il portiere è un uomo solo». Non ne vuole sentire parlare di quella roba lì: è passata, andata, sepolta. Per lui stare tra i pali non è una prigione, non significa angoscia, ma abitare nel futuro. È l’uomo che in questo momento sta agitando il mercato e che ha vinto il derby dei media con più citazioni. (Real o Chelsea?). Non solo intuito e senso della posizione. È anche andato a Portland, sede del suo sponsor, per fare testi specifici sui nuovi guanti, che hanno la cucitura sul bordo interno. Anzi, Alisson Becker, 25 anni, portiere del Brasile (e della Roma) vi dirà che lui è l’evoluzione della specie, un giocatore più che un goleiro. «Un gio-ca-to-re. Capito? Uno degli undici, quando si fa la conta. Non quello che si aggiunge, non dieci più uno».
La sottile differenza?
«Che io non mi considero l’ultimo baluardo, quello che sta in porta fermo ad aspettare. Gioco da difensore, partecipo, cerco di fare presenza sugli attaccanti, partecipo al gioco. Li tocco».
In che senso?
«Mi faccio sentire. Cerco di dare fastidio, di disturbare, non c’è la mia porta e poi la loro zona del campo. Io non ho paura di usare i piedi, non mi viene l’ansia se non devo toccare il pallone con le mani, anzi mi impongo di non strafare».
Però ha delle belle mani.
«
Dita lunghe, da pianista. Infatti suono. Anche la chitarra, soprattutto per mia figlia. Adoro i gospel e la musica country. E in famiglia abbiamo un certo dna: mio fratello Muriel è portiere, mio papà giocava per divertimento nello stesso ruolo, e mia mamma viene dalla pallamano».
Giocare con i piedi, non è mai stato un problema per i brasiliani.
«La nostra tradizione è quella. Ma l’Europa da noi in passato ha sempre cercato attaccanti e numeri dieci. Se giocavi in porta voleva dire che eri un asino a pallone. Si cercavano fisici massici e potenti. Era un ruolo da rifugiato, vivevi la pubblica condanna di essere uno scarto. Il maledetto retaggio di Barbosa che nel ’50 si fece sorprendere dall’Uruguay e che la scontò per tutta la vita. Non è più così: lo hanno dimostrato Taffarel, Dida, Julio Cesar. Ora sono nate le accademie per i portieri. E ci siamo io e Ederson».
Ma Julio Cesar quattro anni fa ne prese sette.
«Mica solo lui, tutto il Brasile. Io ero a casa davanti alla tv e ho visto tutta la partita. Certe cose restano nella pelle, puoi ripeterti che non è la fine del mondo, ma senti lo schiaffo. Chiaro che il paese non dimentica, che io non difendevo quella porta e che quella Germania era forte.
Quando io ne ho presi cinque dal Liverpool ho vissuto un’esperienza quasi simile e non ho domito per giorni. Passavo le notti a chiedermi: quale gol potevo evitare? Fortuna che poi rigiochi e puoi riscrivere la storia».
Lei si allena anche sulla terrazza di casa.
«
Sì, mi sono fatto una palestra. Curo il mio fisico, sono a dieta. Anch’io mi sono fatto consigliare dal nutrizionista di Messi. Bevo mate, infuso caldo, ma mi concedo anche qualche birra».
Lei di cognome fa Becker, sua moglie Loewe.
«E sono nato a Novo Hamburgo, piena di immigrati tedeschi, zona dell’industria calzaturiera.
L’origine è quella, mia nonna a casa parlava tedesco, ma io non sono parente del tennista Boris e mia moglie, pediatra, non lo è del ct della Germania. Un certo carattere fermo l’ho preso da mia madre, donna non abituata a piangere, ma a risolvere le situazioni. Metteteci anche che volevo fare la carriera militare e che la Bibbia è sempre con me.
Sono molto credente».
A chi deve la sua evoluzione?
«
A Taffarel, allenatore dei portieri del Brasile, che stimo molto come uomo e al preparatore Marco Savorani, che nella Roma ha finalizzato le mie caratteristiche. Si è messo dietro la porta e mi ha dato i consigli. Un conto è lavorare con i piedi, un altro è mettersi a disposizione delle necessità della squadra. Indirizzare i tiri dove serve».
Usa già i nuovi guanti.
«Sì, mi piacciono e mi aiutano. È giusto così. Parafrasando: i guanti sono i migliori amici dei portieri».
Il suo collega Essam El-Hadary, papà di 5 figli, a 45 anni è da record.
«Non ho visto la partita dell’Egitto, ma so che ha parato un rigore. È stato bravo, considerando che è il giocatore più vecchio ad aver mai giocato un mondiale».
Lui da bambino parava a mani nude, non aveva i soldi per i guanti.
«Sono i sogni che hai da piccolo che ti fanno diventare grande. Io vorrei fare qualcosa per l’infanzia, soprattutto in Brasile, dare la possibilità alle nuove generazioni di trovare una strada nello sport. So cosa significa vivere in una casa dove tuo padre perde il lavoro e tuo fratello ha già una famiglia da mantenere».
Quindi tra venti rivedremo anche lei in porta?
«Magari, ma no, scherzo. Io a quell’età sarò in Brasile nella mia azienda con le mucche e i bambini. A suonare la chitarra e a cantare con gli amici. In questo sono molto brasiliano».