La penna degli Altri 01/05/2018 13:37

Io, due miei amici e l'incubo rosso

pruzzo esulta

IL MESSAGGERO (M. FERRETTI) - Tutto era pronto. Tutto. Come se nulla, chissà perché, avrebbe potuto modificare il destino. E il destino, secondo i tifosi della Roma, diceva che la squadra di Nils Liedholm avrebbe vinto quella finale. Forse perché si giocava all'Olimpico e, questo si pensava, all'Olimpico non si può perdere. Si può soltanto vincere, anche se di fronte hai i più forti d'Europa. La sera del 30 maggio del 1984 tutto era pronto per celebrare la Roma sul tetto d'Europa. Non era, quella cosa lì, presunzione: era semplicemente la certezza, non la speranza, di una notte magica. Una di quelle impossibili da dimenticare. E così è stato, ma per altri motivi.
Era pronto tutto: la festa in ogni piazza di ogni quartiere, le maglie celebrative, le bandiere con la scritta Roma campione d'Europa, il concerto di Venditti al Circo Massimo e migliaia di chilometri di stoffa gialla e rossa, e vernice a fiumi, per colorare la Capitale. A Roma, in quelle ore, si respirava un'aria strana: da una parte c'era chi era convinto di vincere, da un'altra chi si augurava con tutto se stesso che questo non accadesse. E non erano i tifosi dei Reds, calati a migliaia nella Città Eterna. Loro, quelli del Liverpool, non si rendevano esattamente conto di cosa li stesse circondando, anche se Paese Sera, il giornale per cui lavoravo, quel giorno mandò in stampa tutta per loro un'edizione interamente scritta in inglese.

TRIBUNA STAMPA AGGIUNTIVA - La Roma, un anno prima della finale di Coppa Campioni, aveva vinto il suo secondo scudetto, i festeggiamenti in città erano stati correttamente esagerati ma nulla, si diceva, in confronto a quanto sarebbe accaduto con la Roma campione d'Europa. Non c'era bisogno di social, di whatsapp o di per passare parola: bastava inventarsi qualcosa, che tutto sarebbe andato bene. La partita, in un certo senso, era diventata una specie di rottura di scatole tra il pre festa e la festa. A piazza de Ricci, Valentino e Bobo, proprietari del ristorante-ritrovo di tanti giocatori di Nils Liedholm, avevano requisito ogni metro quadrato di spazio per allestire una gigantesca sala alla luce della luna per accogliere i vincitori nel post partita. Via tutte le auto, solo tavoli. E centinaia di bandiere, piantate sui muri della piazza, con la scritta Roma campione d'Europa. Chi dice, e lo fa da trentaquattro anni, che tutto queste cose portarono sfiga, non ricorda - o non vuole ricordare - che cosa significava giocare in casa la finale di Coppa Campioni, cioè essere a un passo dal sogno impossibile che stava per diventare realtà. Era inevitabile che accadesse quello che è accaduto. Anche a costo di darsi tutto in faccia, qualora le cose fossero andate male. Era bello farlo; era giusto farlo. Perché certe storie vanno vissute così, prima e durante, rischiando perfino di non avere un dopo.
Quando lo svedese Fredriksson diede il via alla finale, ore 20,15, sopra lo stadio Olimpico c'era una luce strana, ma i riflettori c'entravano poco. In tribuna stampa aggiuntiva, lo stesso schieramento tattico degli ultimi due anni: io al centro, Maurizio
Catalani da una parte e Pino Cerboni dall'altra. Due colleghi, due amici. In Monte Mario, tra gli altri, un giovane allenatore svedese, Sven Goran Eriksson, chiamato a sostituire da lì e pochi mesi il connazionale Liedholm in partenza per Milano. Il gol di Neal, il pareggio di Pruzzo poi i calci di rigore. È storia, la conoscono tutti. C'è stato un momento, una manciata di secondi, forse meno di un minuto, in cui la Roma è stata sul tetto d'Europa: errore di Nicol e gol di Di Bartolomei. Roma in vantaggio, che per qualcuno è la frase più bella al mondo. Il boato al gol di Ago, però, non ha nulla a che vedere con il silenzio devastante che ha accompagnato il rigore di Kennedy, quello del 4-2 (5-3 per la storia) Liverpool. Quella del sogno svanito. Ai miei lati, Pino e Maurizio piangevano disperati. In realtà, chi sostiene che quella finale non si sia mai giocata, lo fa soltanto per non piangere ancora.