Solo un rispettoso silenzio andrebbe deposto davanti a Davide Astori e alla sua morte crudele, così difficile da capire e da accettare. Ma non si può, e allora è dal silenzio che partiamo, da quello dei nostri stadi dove non si è giocato, da quello di dove si è giocato. Da Barcellona, dove solo le note di un violino e nessuna voce, nessun coro, hanno dato l’ultimo saluto a Quini, storico goleador del Barça, e insieme a lui anche ad Astori. Non tutti in Catalogna lo conoscevano? Non importa. Non era un blaugrana? Non importa. Era un ragazzo serio, un capitano di quelli veri. Aveva solo 31 anni. È morto nel sonno. L’autopsia spiegherà come e perché. Un aneurisma, una malattia cardiaca latente, altro ancora. Ma anche questo, ieri, non importava. Simeone, un duro, piangeva. Carlos Sanchez, ex viola ora all’Espanyol, s’è accasciato sul campo. Astori aveva tutto per essere felice: una compagna, una figlia piccola. Per questo, da morto, è diventato di tutti. Come di tutti diventò Wouter Weylandt, morto in bici a 27 anni lungo la discesa del Bocco, al Giro del 2011. E prima di lui Fabio Casartelli, morto in bici lungo la discesa del Portet d’Aspet, al Tour del 1995, un figlio di due mesi. Un nome, un cognome, una vittoria importante (la gara in linea alle Olimpiadi del ’92) ma per gran parte del gruppo Casartelli era l’equivalente del milite ignoto. Cadere in discesa, senza casco, la testa che si rompe come una noce: chiunque poteva essere al suo posto, e chiunque, campione o gregario, poteva morire al suo posto. Tutti i ciclisti avevano questa consapevolezza quando, il giorno dopo, gli dedicarono una tappa pirenaica a passo d’uomo, sotto un sole che martellava. Era come un funerale, più di un funerale. Era il lungo addio del gruppo. Compatto, unito come un pugno. Solidale nel dolore. Spesso il ciclismo è più solidale del calcio. Per questo, oggi, è da sottolineare che richieste di non giocare ieri siano venute da molti calciatori di molte squadre, e i tifosi abbiano capito. Perchè la morte cancella i colori delle maglie e tifare non ha più alcun senso. Vent’anni fa, credo si sarebbe giocato, sola eccezione Udinese- Fiorentina. Citando il vecchio detto sullo spettacolo che deve andare avanti, sul trapezista che cade e allora al circo vengono fuori i pagliacci. Giustificando con il fatto che ormai le squadre erano in loco. Aprendo un dibattito: si rende più onore al calciatore morto giocando e impegnandosi al massimo, come faceva lui, o saltando le partite? Oppure, più bassamente, evocando le arcinote difficoltà di calendario. O, ancor più bassamente, precisando che Astori non era morto sul campo. Massimo del cinismo, come se non svegliarsi a 31 anni in un letto d’albergo fosse una morte più facile da accettare, col solito corollario: poverino, almeno non ha sofferto. Forse non ha sofferto, ma è morto. E quando muore un atleta giovane, in apparenza sanissimo, e questo atleta è un calciatore italiano di buon valore, la sua morte che annulla colori e distanze, che è vissuta da tutto il calcio come fosse una grande famiglia, oltre che dolore porta riflessioni. Una banale, ma non trascurabile. Per i tifosi un calciatore è un luminoso semidio o un miserabile mercenario, a seconda dei risultati lo osannano o gli bruciano la macchina. Ai calciatori, in generale, interessano i soldi, le donne e le macchine. I calciatori vivono in un mondo tutto loro, da privilegiati. Dalle parole con cui compagni e avversari ricordano Astori, il mondo da privilegiati sembra da escludere. Era un buon professionista, in Nazionale più convocazioni che presenze, ma anche un gol. Barzagli, Bonucci e Chiellini gli hanno un po’ chiuso la strada. L’ingaggio non era un problema, l’Italia non abbonda di bravi difensori. In più era un tipo serio e solido, giocava al calcio come un altro starebbe al tornio o guiderebbe un tram. Il suo mondo era quasi uguale al nostro, per questo la notizia della morte ha colpito come un pugno al mento, un colpo d’incontro che azzerava la distanze e portava a pensare all’uomo, anche semisconosciuto, più che al calciatore. All’amore che ha dato, all’amore che avuto, alla sua famiglia, alla tristezza per una vita spezzata così, da una stella nera che passa. Tommasi s’è fatto ambasciatore e Malagò ha deciso nel modo più giusto. Quando il calcio mostra l’anima, non si può ignorarla.
La penna degli Altri 05/03/2018 15:53
IL PUNTO DEL LUNEDI' - Caputi: "Una tragedia che lascia il segno" - Mura: "L'unica scelta era fermarsi" - Monti: "Giusto non giocare"
La morte improvvisa di morte di Davide Astori sconvolge il calcio italiano, e la Serie A si ferma. Un fatto improvviso, sconvolgente, che ha portato calciatori e dirigenti a prendere la decisione per fermarsi in un momento di dolore che coinvolge tutti, al di là dei colori o della squadra di appartenenza.
Ecco i commenti di alcuni degli opinionisti più importanti della stampa, pubblicati sulle colonne dei quotidiani oggi in edicola.
IL MESSAGGERO (M. CAPUTI)
Non c’è una morte più dolorosa di altre, così come non ci sono differenze nel dolore immenso di una scomparsa. È indubbio però che quella di Davide Astori abbia un impatto sconvolgente. Un atleta di soli 31 anni, andato via nel sonno durante un ritiro prima di una gara di campionato, lascia sgomenti, increduli e impotenti. Un uomo così, un calciatore come Davide, lo immaginiamo invincibile, un gladiatore dei nostri tempi, forte, sano, vulnerabile solo ai tackle degli avversari. Ci sembra impossibile che un professionista, costantemente monitorato e senza alcun tipo di segnale premonitore, possa essersene andato in questo modo. Era una sera come tante prima di una partita, con i compagni in un albergo a condividere l’attesa della gara. La solita routine: cena, telefono, un po di playstation con Sportiello e poi la notte in vista del domani. Già, quel maledetto domani e una colazione a cui Davide non si è mai presentato. Compagno di Francesca e padre della piccola Vittoria, capitano vero e professionista stimato, Davide era un uomo a cui era impossibile non volere bene. Lo dimostrano le parole e gli attestati sinceri giunti da ogni dove, privi di qualsiasi ipocrisia o frasi di circostanza. Per i valori e la condivisione di emozioni che lo sport e il calcio rappresentano è stato giusto rinviare le partite di campionato, non solo quella che avrebbe visto la Fiorentina affrontare l’Udinese. Tragedie come queste lasciano il segno, ti costringono a comprendere il sottile filo a cui è legata la nostra vita.
LA GAZZETTA DELLO SPORT (A. MONTI)
Colpiti al cuore. Non ci sono parole per riempire il pozzo di sgomento in cui la morte di Davide Astori ha precipitato il calcio italiano e tutti noi che lo amiamo. Solo il silenzio di una giornata che doveva rimbombare di passione sino a tarda sera e che invece s’è fermata nel tempo e nello spazio, congelata da un’ombra oscura, una nebbia fatta di dolore e incredulità. Un elettrocardiogramma interrotto. Il pallone si è fermato di colpo, quasi d’istinto, per fortuna. E’ giusto, anzi sacrosanto così. Ma non era scontato. [..] Il campionato non è stato sospeso dalla decisione, peraltro tempestiva, di Giovanni Malagò e di alcuni presidenti. No. Sono i giocatori, nessuno escluso, che hanno deciso di fermarsi in raccoglimento, di non scendere in campo per la consueta rappresentazione, di far vincere il rispetto e i valori antichi di cui parla Buffon. C’è da sperare che se ne ricordino tutti, protagonisti e spettatori, quando il vento freddo di questa domenica bestiale si sarà posato, gli spalti torneranno a rumoreggiare e il tifo ad avvelenarci. Il ricordo di Astori andrà a collocarsi nel grande puzzle della memoria condivisa dagli sportivi. Nulla potrà lenire lo strazio di Francesca, della piccola Vittoria e della famiglia a cui vanno i pensieri e l’abbraccio della Gazzetta. Ma se è pensabile rintracciare un senso, seppur remoto, in questa tragedia è tutto nella speranza che davvero sia servita ad aprirci gli occhi. Talvolta ascoltare il silenzio ci rende migliori.
LA REPUBBLICA (G. MURA)
CORRIERE DELLA SERA (D. DALLERA)
Il calcio sa piangere. Di solito urla, spesso per far festa, oppure per insultare, avversario e arbitro, dipende dalle necessità. Stavolta si ferma, commosso, stravolto dal dolore, da quel cuore giovane che si arresta all’improvviso, cuore di capitano, Davide Astori, 31 anni [..]. Il calcio piange e si ferma, non ce la fa a giocare, a correre dietro al pallone, a cercare il gol, a mandarsi a quel paese per un fuorigioco non visto o un rigore non fischiato, a combattere per la vittoria, a disperarsi per una sconfitta. Stavolta la disperazione è per una vita che non c’è più. Inutile chiedersi se sia giusto o sbagliato, se Giovanni Malagò, presidente del Coni e commissario di un calcio in crisi, abbia fatto bene a ordinare lo stop: ha deciso in pochi minuti, raggiunto da un dolore intenso e contagioso che ha travolto anche lui. C’è un senso alto, e al tempo stesso molto profondo, di umanità, quando il calcio, tutto il calcio, spesso ingordo consumatore di sentimenti, si ferma a pensare. Compagni, avversari, ex compagni, tutti insieme, fanno una grande tribù. Quel mondo del pallone che piange, riflette, magari prega, esalta un valore fondamentale dello sport: il senso di squadra. [..] Fermandosi per un giorno, un solo giorno, il calcio ha fatto squadra. La morte di un uomo di 31 anni, qualsiasi mestiere faccia, è la fine di una speranza: quella di Davide Astori manda un segnale, la sua eco esce da Udine, raggiunge Firenze, si rilancia in tutta Italia, abbatte ogni confine europeo — Real Madrid, Barcellona, Manchester City, mezza Europa si rivelano amici di Davide — e si propaga lontano: è la preghiera, anche laica, di tutto lo sport.