La penna degli Altri 02/05/2017 19:30

La Roma e Totti sono due mondi in conflitto

AS Roma v SS Lazio - TIM Cup

DAGOSPIA (G. DOTTO) - Due, forse tre, puntate definitive sulla questione Roma. Titolo della prima: “Siamo alla resa dei conti, che non vuol dire la resa di . Inutile girarci intorno. Da almeno sei anni, gli ultimi due in maniera cruenta e sempre meno silente, il malessere che infetta Trigoria ha un nome, un principio e, per il momento, non ancora una fine. E’ la guerra dei mondi, dei due mondi. La Roma e . La Roma, nonostante , a dispetto della Roma. Ma come? Protestano le anime candide, i cretinetti del pensiero povero, le sguattere microfonate della malafede. La Roma e non sono la stessa cosa? Una specie di corpo fusionale in cui si perdono i confini dell’uno e dell’altro. Negativo.

La Roma e , oggi più di ieri, sono due mondi in conflitto. Due pianeti abissalmente separati. Orson Welles, quasi ottant’anni fa, scatenò il panico via radio raccontando con toni più che realistici lo sbarco degli alieni presso un ranch del New Jersey. Le radio locali di oggi, e nessuno che si avvicini alla metafisica grandezza di Orson, declamano lo sfascio della fattoria di Trigoria. Dove, in una prospettiva rovesciata, l’unica salvezza possibile è nell’avvento dell’alieno. Alias Ramon Rodriguez Verdejo, detto Monchi, il nuovo direttore sportivo, nato a San Fernando nel settembre del ‘68, l’anno della più immane utopia.

Il tifoso romanista deve augurarsi che Monchi resti alieno a Trigoria il più a lungo possibile, di sicuro per i prossimi quattro anni. Che vuol dire, consapevole di quanto gli sta attorno, rumori osceni di fondo inclusi, ma così forte, sicuro di sé e sprezzante da passarci sopra. Come un tank, come una farfalla. Il nodo è venuto al pettine. E il nodo si chiama . Tutto il resto, da almeno sei anni in qua, è conseguenza diretta e indiretta. In campo e fuori. Il puntuale tritacarne di allenatori e dirigenti, la mancata crescita dei giocatori, le guerre di religione tra tifosi, la fede per la squadra contro l’idolatria per il calciatore, la barbarica strumentalizzazione dei media. La Roma contro . contro la Roma. Il Grande Tappo. Lo Scacco. Il Cul de Sac. La Roma se ne sta lì, chiodata, nella sua croce. Il nome di le impedisce di crescere, di respirare. Di pensarsi altro e altra.

, chi per lui, ha smesso da un pezzo di essere il nome paradigmatico dell’epopea giallorossa, trasformatosi in un bisillabo ossessivo, troppo facile da evocare, usato a martello in ogni occasione contro la Roma. Ma come? Scellerato! Diranno i più eleganti. Brutto stronzo!, tutti gli altri. Te la prendi con il invece che con l’Americano o lo , il di turno, prima di lui , Baldini, , Enrique, eccetera? Naturalmente, replico alla massa fessa, non me la prendo con nessuno. Racconto solo una storia interessante. Da tifoso mi dispiaccio. E anche tanto. Mi colpisce di più la natura dello scacco. La trama della tela. Più che l’identità dell’eventuale Ragno. Di sicuro, l’impossibilità di sciogliere il nodo ha determinato a Trigoria una notevole perdita di lucidità, a seguire la gran parte dei problemi che oggi intossicano società, squadra e ambiente. Chiedersi, a proposito, e possibilmente rispondersi: perché questa smania di fuga che, puntualmente, colpisce la gente in transito a Trigoria?

Qualcuno dice: non si tratta d’impossibilità, ma d’incapacità. E forse di viltà. La dirigenza romanista non sarebbe stata capace d’imporre la sua volontà, nel momento in cui si è resa conto di quanto il giocatore fosse diventato un ostacolo alla crescita della squadra, al suo diritto/dovere di immaginarsi di là dell’ingombrante totem. Facile a dirsi. Complicato a farlo. Nel mondo intero, è la Roma. Più della Roma. A Singapore come a Honolulu non c’è Roma senza . Possiamo dirlo, il marchio prevale sul marchio Roma. Il grosso guaio a Trigoria è che Francesco ha sposato la causa e non la causa Roma. Il guaio a Trigoria è l’equivoco che sia la Roma. Ma il guaio più guaio di tutti è che , calciatore sovrannaturale, non è in quanto Francesco all’altezza del mito che incarna. O almeno, lo è, alla grande, ma solo nei suoi riflessi di marketing applicato.

Per il resto, un leader degno di questo nome, realmente sposo devoto della causa giallorossa, si sarebbe speso per unire invece che dividere. Una sola sua parola, autentica non di facciata, sarebbe bastata per zittire la guerra di religione accesa sul suo nome (la squadra fischiata, per dirne una, la più incredibile, perché non butta fuori il pallone, ritardando l’ingresso in campo della Divinità). Ha parlato, sì, ma da ventriloquo, con la voce di Costanzo e mille altri. Un gesto sarebbe bastato: farsi da parte e favorire la pace romanista, quando ostinarsi ad esserci non faceva altro che impoverire la leggenda e avvelenare l’aria. “Li distruggeremo”, “Vinceremo 2 a 0”, ha voluto dire nella settimana del derby, nelle sue sempre più frequenti incursioni nel mondo glamour dei media. Proclami da marketing, più che da capitano romanista.

Per non dire del suo vendere televisivamente la finta immagine del bambinone ebete. O sei il gladiatore o il bambinone ebete. Scegli. Non sappiamo chi ti consiglia. Di sicuro, nessuno, ma proprio nessuno, può desiderare che ti ostini in campo con la tua evidente sagoma da ex, a oltraggiare te stesso e la tua storia. è libero di fare quello che vuole”, piovono da ogni dove i cretini truccati da anime belle. No. Se è un leader, se è la Roma, non è libero di fare quello che vuole.

Nel frattempo, dentro questo falò, ci siamo giocati anche il tormentato Lucio . L’ultimo della serie. Un grande allenatore. Anche la sua psiche (e la sua lucidità) travolte dallo stillicidio e derivati. “It’s getting dark too dark to see/Feels like I’m knockin’ on heavens’ door”. Bussare alle porte del paradiso resta per Lucio e la sua Roma una soluzione possibile, ma solo nella prospettiva della fine, del buio, della perdita di ogni obiettivo e l’unica consolazione che a cantarlo sarà il Sublime Menestrello del Minnesota.

Difendere il secondo posto dal sarebbe a questo punto un’impresa e la Roma di oggi non è squadra da imprese. La batosta nel derby ha avuto se non altro il merito di spegnere l’inesauribile macchina allucinatoria del tifoso giallorosso, incredibilmente riaccesa dopo il pareggio della a Bergamo. Basta. Fine. Pietà. Quelle sagome esangui che si aggirano in campo aspirano solo a una cosa. Finire e (forse un giorno ripartire). Troppo pochi, troppe battaglie. E troppo rumore.