LA REPUBBLICA (S. SETTIS) - In questo “paese senza”, lo storytelling è ormai un instrumentum regni. C’è un problema? Basta dire che si è trovata la soluzione (senza dire quale) e tutti si placano.
Quando arriva il momento della verità la soluzione, quella vera, non interessa più a nessuno. Abbiamo visto governi annunciare, dopo un Consiglio dei ministri, interventi che salvano la scuola, esaltano la cultura; per poi scoprire che il testo era ancora tutto da scrivere. Vediamo ora il Comune di Roma adeguarsi al costume, e fare altrettanto con la vicenda stadio. La discussione, anche dentro un M5S sempre più diviso (ma sempre più forte grazie alle debolezze altrui), riguardava l’enormità dell’operazione edilizia, in cui lo stadio è una piccola parte rispetto a un milione di metri cubi di costruito, un Business Park con tre grattacieli firmati dall’archistar di turno (altezza 220 metri). Dopo il consueto zig-zag di dichiarazioni, ecco il miracolo: dimezzate le cubature (ma dove?), decapitati i grattacieli (ma di quanto?), ridotte le opere pubbliche (e il verde?). La descrizione cambia a seconda di chi ne parla: l’importante è dire che c’è l’accordo fra Roma (intesa come città) e la Roma (intesa come società calcistica). L’importante è che il M5S dia un messaggio rassicurante: anche a noi piace l’urbanistica contrattata, state sereni. Non siamo poi così radicali, non temiamo di varcare “la linea d‘ombra del cemento” (Tomaso Montanari, Repubblica, 14 febbraio).
E naturalmente ora tutti vogliono lo stadio. I progetti in lista d’attesa includono la Lazio (che in nome della par condicio rivendica il diritto di devastare un altro pezzo di campagna romana), Firenze, Milano, Bologna, Napoli, Palermo. Ma perché quest’alluvione di stadi? L’ultimo governo Berlusconi lanciò un disegno di legge che considerava «urgente e indifferibile » costruire per ogni dove nuovi stadi. Ma quel testo era un cavallo di Troia, autorizzando intorno agli stadi la costruzione di zone residenziali e servizi, insomma vere e proprie new town. Il tutto in barba alla tutela del paesaggio: per velocizzare «le necessarie varianti urbanistiche e commerciali» le garanzie di legge venivano annullate mediante il teatrino di una conferenza dei servizi e la «dichiarazione di pubblica utilità e indifferibilità e urgenza delle opere». Quella norma non fu mai approvata come legge autonoma, ma venne riversata con un colpo di mano dal governo Letta nel comma 304 della legge di stabilità 2014: è su questa base che le procedure per lo stadio furono avviate, e la giunta Marino le dichiarò di pubblica utilità e urgenza.
La ratio della norma è chiara: lo sport come scusa per rilanciare la cementificazione del paesaggio. Ma in termini di legalità? La decisione sul progetto spetta a una conferenza dei servizi prevista per oggi, ma l’unico parere scritto formulato dal Comune è quello, negativo, dell’ex-assessore Paolo Berdini, secondo cui «il luogo presenta caratteri di fragilità idrogeologica che sconsigliano l’edificazione, che comporterebbe un notevole consumo di suolo e renderebbe impermeabile la metà circa dell’area». Inoltre, la delibera della giunta Marino fu fatta sul vecchio progetto, e una dichiarazione di pubblica utilità non può darsi senza il nuovo progetto. Non ci sono nemmeno valutazioni che lo riguardino; ma i documenti ufficiali sul primo progetto restano validi, perché interessano valori a rischio anche con cubatura ridotta.
In un parere pro veritate Ferdinando Imposimato rileva che, mentre secondo la legge «lo stadio non può prevedere altri interventi salvo quelli strettamente funzionali alla fruibilità dell’impianto», le costruzioni previste «non sono in alcun modo finalizzate allo stadio, ma hanno il solo scopo di procurare guadagni a vantaggio del proponente e soci, secondo la strategia di (...) insinuare l’edilizia residenziale speculativa, di volumetria esorbitante quella dell’impianto». Insomma, scrive Imposimato, «si parla di uffici direzionali, ma tale Business Park serve a mascherare un’operazione di mega speculazione edilizia»;
il progetto è dunque contrario all’utilità sociale, viola gli articoli 9, 32, 41 e 42 della Costituzione, e la delibera che ne dichiara l’interesse pubblico è da ritenersi nulla. Altri dati di fatto sono richiamati nel parere unanime dei Comitati tecnico-scientifici per l’archeologia, il paesaggio, le belle arti e l’architettura: quell’ansa del Tevere mantiene un carattere rurale, con tre casali agricoli, un ponte romano, lo storico castello della Magliana, e il vincolo paesaggistico in una fascia di 150 metri dal fiume. L’area è di interesse archeologico, e nessuna indagine di archeologia preventiva vi è stata effettuata. Infine, la Soprintendenza di Stato ha vietato la distruzione anche parziale dell’ippodromo di Tor di Valle, «opera di grande innovazione costruttiva degli architetti Lafuente e Rebecchini» (1960), e la Direzione Generale del Ministero ha rilevato che «l’intervento è previsto in un ambito della piana fluviale del Tevere sostanzialmente integro e di notevole qualità paesaggistica» e il progetto comporta «interferenza con le visuali da e verso il centro storico, tutelato quale sito Unesco». Con tali valutazioni, come è mai possibile decidere senza un nuovo articolato progetto che consenta di rivederle? Come farà a esprimersi il “responsabile unico del procedimento” nella conferenza dei servizi (a quel che pare, il funzionario di Palazzo Chigi Carlo Notarmuzi)?
Quale che sia la cubatura prevista, questo è in primo luogo un problema di legalità, anzi di legalità costituzionale. Questo progetto non è una risposta alla crisi economica né alla macelleria sociale che ne consegue, e nemmeno al degrado di quell’area, ma la prosecuzione di pessime abitudini. E infatti non propone di costruire impianti sportivi o uffici riscattando le periferie più cadenti o recuperando edilizia di pregio (come lo Stadio Flaminio o l’edificio Inps a Piazza Marconi), ma punta su un’area a verde agricolo con vincoli paesaggistici e archeologici. La vicenda Stadio è una cartina di tornasole: non lo storytelling ma la verità dei fatti mostrerà chi sta dalla parte della legalità, e chi alla Costituzione preferisce la speculazione.