La penna degli Altri 05/02/2015 09:36
Le parole confuse e l'allegria perduta
LA REPUBBLICA (A. PONTANI) - La bella Roma che macinava punti e avversari in allegria è ridotta così: testa bassa e braccia incrociate mentre si sottopone al triste rito delle “spiegazioni” richieste dagli ultrà, peraltro appena tornati in curva dopo un paio di partite di serrata per ordine pubblico. Fuori le palle, gridano quelli: i campioni ascoltano allineati e disfatti, guai a sottrarsi, qui non si può. Tutto normale, in Italia, quindi nessuno stupore. Quello semmai va riservato alla misteriosa scomparsa della bellezza, dei punti, dell’allegria, non necessariamente in quest’ordine, anzi. L’allegria della Roma è finita presto, quest’anno, alla sesta giornata, quando dopo cinque vittorie e tante speranze è arrivata la sconfitta di Torino con la Juve, ma soprattutto è arrivata la scelta di gestirla in quel modo: le ingiustizie subite (che ci sono state, ed evidenti) sono subito diventate la cifra della stagione, la chiave per una nuova comunicazione che sostituiva l’ironia e la brillante sfrontatezza di Garcia con la protesta rancorosa, i gesti del violino, la costruzione di un ritornello durato troppe settimane. Poi è arrivato il resto: i sette gol del Bayern che hanno spalancato il sipario su un divario umiliante con il top del calcio europeo, il buio di Mosca all’ultimo secondo, il crac in Champions col City, il cammino rapido ma mai brillante in campionato, con pochi gol segnati, molti subiti e sempre tante, troppe polemiche in mezzo. L’allegria della Roma è morta prima che arrivasse l’inverno, quando è tornato tutto il vecchio repertorio che pareva cancellato da Garcia: la tensione eccessiva con cui la squadra affronta le partite, l’impressione di un gruppo dove tutti pensano molto agli affari propri, i processi via etere che imperversano 24 ore al giorno, una soffocante dimensione da raccordo anulare, evidentissima nella settimana del derby. Totti che pareggia e fa il selfie, in fondo, è stato una fotografia da conservare per tante ragioni: per l’ultimo vero sorriso prima di un mese disastroso, certo, ma anche per quel pizzico di provincialismo che trasuda da una squadra che si compiace di un pareggio invece di cercare subito di vincere, come dovrebbe fare chi ha in testa uno scudetto. E poi la squallida polemica dei giorni dopo con Lotito, il clima da canizza di quartiere, il rinfacciarsi bilanci e scommesse, mentre la Juve pensava a vincere e arrivavano invece altri pareggi, sempre più brutti, sempre più inutili, sempre più angosciati. Ora che è sfumato il secondo obiettivo stagionale — anche se la luminosa Champions ha lasciato il posto alla più che onorevole Europa League — Garcia sembra smarrito, in tutti i sensi. Continua ad alzare la posta, parla di mondo invece che di villaggio, si adegua a una strategia di comunicazione che ha abbandonato da mesi i toni leggeri per incupirsi nei proclami, facendo perdere simpatie e a volte — come nel caso dei rigori dubbi, che non ci sono mai quando sono contro e ci sono sempre quando sono a favore — credibilità. Certo, c’è ancora tanto, in questa stagione: l’Europa da giocare e quella da conquistare, resistendo al Napoli che vola, alla Lazio, alle altre, Fiorentina inclusa. Ma soprattutto c’è da ritrovare il senso di un progetto e di una squadra, nata per divertire e finita triste sotto una curva, sotto la pioggia, sotto troppe parole sbagliate.