La penna degli Altri 03/12/2014 10:30
Moratti: "Il mio calcio non è un'azienda. Volevo Totti, ma Sensi mi disse di no"
CORSERA (D. DALLERA, F. MONTI) - Sembra l’altro ieri e invece sono passati vent’anni da quando era iniziato una specie di pressing popolare perché Massimo Moratti prendesse in mano l’Inter, che era stata di suo padre e che nel frattempo era scivolata oltre la decima pagina dei quotidiani sportivi, giocava in uno stadio sempre più vuoto, offriva un’immagine un po’ sbiadita di sé. Le due sconfitte nerazzurre a San Siro con Napoli (11 dicembre 1994) e Lazio (18 dicembre) avevano fatto precipitare la situazione e alla fine era stato «costretto» a dire di sì, con l’avvocato Prisco che l’aveva quasi precettato, incontrandolo il 13 gennaio 1995 in via Pietro Verri, a Milano.
Adesso che sono passati vent’anni e la famiglia Moratti ha scelto di uscire anche dal consiglio, dopo aver ceduto la quota di maggioranza (15 novembre 2013), c’è spazio per tutto, anche per i ricordi, ma sempre aperti al futuro, perché «l’Inter è un sentimento. Che si trasmette dai tifosi alla società ai giocatori e a tutto quello che diventa passione, ricordo, affetto e che ci completa la vita. E sempre con l’idea che c’è domani, perché domani c’è un’altra partita e domani si ricomincia e si riparte».
Il passato, il presente e il futuro di Massimo Moratti, che non smetterà mai di pensare all’Inter, è riassunto da Roberto Mancini, non solo perché è stato l’allenatore con il quale i nerazzurri sono tornati a vincere, ma «perché la prima idea che avevo avuto, nel momento dell’acquisto della società, era stata quella di prendere Cantona e Mancini. Poi Cantona l’aveva combinata grossa, a Londra, me presente, con quel colpo di kung fu al tifoso del Crystal Palace e aveva voluto restare a Manchester e Mancini non era cedibile. Sarebbe stata un’accoppiata fantastica, degna della tradizione dell’Inter, una squadra che ha sempre privilegiato il genio calcistico e che non ha mai soffocato il talento: da Meazza a Wilkes, un giocatore meraviglioso, almeno per quello che mi ha raccontato mio fratello, da Skoglund a Corso, da Ronaldo a Recoba a Ibrahimovic. Ricordo ancora il debutto di Corso, nell’anteprima di Inter-Brasile: al ventesimo dribbling, il suo avversario era uscito dal campo, tanto era frastornato. Altre due volte ho cercato di prendere Mancini; a fine ottobre 1996 era tutto fatto, poi Enrico Mantovani mi aveva spiegato che ci sarebbe stata una sollevazione popolare dei tifosi della Samp. E io mi sono tirato indietro».
Così a giugno 1997 era arrivato Ronaldo «ed è stato il miglior investimento dei miei 18 anni di presidenza interista, perché ci ha aperto il mondo; era fortissimo, irraggiungibile per talento e velocità e nessuno pensava che ce l’avremmo fatta a prenderlo, visto che era del Barcellona». Ma è rimasta una grandissima ammirazione anche per Ibrahimovic: «Ha doti straordinarie, ma soprattutto ti fa vincere. Con noi tre scudetti di seguito. Qualche giorno fa, stavo riguardando la partita con il Parma, sotto il diluvio nel maggio 2008. Ibrahimovic era stato grandissimo, ma non solo lui. Penso per esempio a Balotelli, che giocava all’ala. Mi spiace molto che stia attraversando un periodo così; ha avuto grandi opportunità, ma non è riuscito a raccogliere quanto avrebbe potuto. Si è involuto rispetto a quando giocava con l’Inter». Ibrahimovic era «così trascinante che, dopo l’ultimo allenamento con la squadra in America, prima di prendere l’aereo e di volare a Barcellona per firmare, aveva salutato i compagni dicendo: è stato molto bello con voi, ma senza di me non vincerete più niente. Per fortuna non è andata così».
Era arrivato Mourinho, l’uomo del Triplete: «Mi ha sempre ricordato Herrera. Grande lavoratore, serio, scrupoloso, sempre pronto a difendere la società. E vincente. Sarebbe potuto tornare a Milano con la squadra, dopo aver vinto la Champions League, ma nessuno è perfetto. Il bello è che due giorni dopo, era a cena a casa mia. Anche il tipo di organizzazione di Mourinho ricordava quella del Mago, che era veramente unico. Dicevano a papà che gli dava uno stipendio troppo alto e lui replicava: il Milan ha due tecnici, Viani e Rocco, io uno solo che prende come due. Erano spettacolari anche gli allenamenti di Herrera: voleva che si andasse in porta con tre passaggi. Al quarto fischiava e faceva ripetere tutto». C’è chi continua a rimproverare a Moratti di non aver venduto i giocatori migliori e più cari dopo il Triplete: «Non capisco come si possa sostenere questa tesi, nei confronti di giocatori che per noi sono stati fondamentali per anni. Campioni e uomini eccezionali, mai li avrei ceduti, nemmeno Milito, per le parole dette a Madrid. Non avrebbe avuto senso, perché davanti a tutto c’è il bene della squadra. E con tutti loro abbiamo vinto il Mondiale».
C’è un altro campione che Moratti aveva sognato per l’Inter: Francesco Totti. «Ero a Roma con il presidente Sensi, nel 2007; stavamo chiudendo per Chivu e gli buttai lì: se per caso vuoi cedere Totti, devi solo indicare la cifra. Ma lui senza nemmeno pensarci un secondo, mi aveva risposto: no, Totti resta qui, non lo cederò mai. E aveva ragione, anche se da noi Totti avrebbe vinto il Triplete, perché è un giocatore straordinario, cattivissimo in campo quando ci affronta, ma gentilissimo prima e dopo».
Da un anno è un’altra Inter: «Non ho mai pensato di essere un presidente a vita e quando ho capito che era necessario cambiare, per ridare spinta alla società, ho deciso di cedere la maggioranza. Thohir è giovane, ha voglia di fare e di fare bene. La sua famiglia ha grandi disponibilità economiche; vuole comandare ed è giusto così. Con mio figlio e con Ghelfi abbiamo lasciato le cariche che avevamo perché si era creata una situazione non molto simpatica. Il silenzio dei dirigenti dopo le parole di Mazzarri su di me non è stato bellissimo. Ma sono amico di Thohir e questo episodio non ha incrinato i nostri rapporti che restano ottimi. Credo che ormai abbia capito che l’Inter è un club diverso da tutti gli altri. Unico. E vale per tutti: dirigenti, allenatori, giocatori. I tifosi interisti sono molto competenti, ma anche esigentissimi e non contemplano la modestia. Chi segue o fa sport ai massimi livelli non può puntare al decimo posto. Una volta un tifoso per strada mi ha detto: bisogna spendere di più. Aveva ragione. La scelta di Mancini, che è di Thohir e che a me è piaciuta, va in questo senso, così come mi è piaciuto che Mancini abbia parlato del terzo posto come di un obiettivo anomalo».
Quello che Moratti ha capito in tanti anni è che «il calcio non è un’azienda. Non lo è in assoluto e non lo è a maggior ragione nel caso dell’Inter. È giusto rispettare perimetri e parametri, ma l’azienda non c’entra niente, perché non c’è tempo per i bilanci. Ogni settimana o addirittura ogni tre giorni, c’è una verifica e il risultato di una partita conta sempre molto. Non esiste la programmazione a medio o lungo termine. E poi ci sono i tifosi, con i loro sogni, le loro speranze, le loro aspettative. Ho sempre pensato che fossero loro i veri padroni dell’Inter. Per questo anche ai tempi di papà, per tutti noi della famiglia, l’Inter è sempre stata soltanto una passione. E proprio per questo guidarla è anche una sofferenza, che va al di là di quella del tifoso, perché ne hai la piena responsabilità. Ma è stata un’esperienza magnifica».
Moratti è stato accusato di aver speso troppo per l’Inter e la moda attuale è tirar fuori i bilanci di questi anni: «Io ho sempre cercato di investire, per tenere il club in alto, perché l’Inter è fatta per restare al vertice e perché Milano è una città esigente, alla quale devi sempre dare il massimo; ha forza di trascinamento, entusiasmo, progettualità vera e sa offrire grandi opportunità a tutti». È passato un anno dal passaggio delle azioni e a Novella Calligaris, in un’intervista per la Rai del dicembre 2013, Moratti aveva detto: «Troverò qualcos’altro che mi emozionerà». Forse l’ha già trovata, forse la troverà.