Ne conosceva anche i suoni: per credere domandare a Francesco De Gregori, che se lo ritrovò davanti, una sera, con gli occhi spalancati a dirgli «sono un suo ammiratore». Difficile crederlo per il Principe, deve averlo capito lo stesso Guardiola, che per convincerlo improvvisò qualche nota di alcune sue canzoni: sufficienti a lasciare senza parole il cantautore. Pochissime discoteche, tanti teatri: niente serate al Piper Club, meglio l’Ambra Jovinelli. La squadra stanziata alla periferia sud tra l’Eur e Casal Palocco, lui lontanissimo, seguendo il consiglio del solito Baldini: «Pep, resta in centro, la vera Roma è qui». Così il “medio-centro” che solo un anno prima aveva salutato la casa madre Barça con la gente in piedi e il coro di With or without you degli U2 a riempire il Camp Nou, si convinse a prendere casa a due passi dal Pantheon, tra un caffè al bar Sant’Eustachio e un occhio al Caravaggio di San Luigi dei Francesi. Trigoria era lontana, fisicamente e nei pensieri: sarà stata quell’accoglienza da dopato, con domande affilate fin dalla prima conferenza stampa sulla positività al nandrolone che lo aveva costretto a una squalifica di 4 mesi e a sostenere visite mediche infinite nei laboratori dell’Acqua Acetosa. Sarà che nella Roma che stentava Capello lo vedeva poco («Troppo lento») preferendogli i muscoli di Emerson, Tommasi, persino del carneade brasiliano Lima.
Sarà che in testa Pep aveva già altro: «Era pronto per fare l’allenatore — ricorda l’ex attaccante Marco Delvecchio, suo compagno in quei giorni romani — se capitavi in panchina vicino a lui lo sentivi, sapeva sempre dove intervenire quando la squadra non andava. Aveva una propria idea di calcio chiara, vedeva prima degli altri come sarebbe andata la partita». In quei giorni, forse, Guardiola capì che Roma poteva diventare la sua palestra mentale: passava ore a parlare con i ragazzi aggregati in prima squadra, quello che poi avrebbe replicato nella cantera del Barça, spiegando il gioco che aveva in mente. Uno di loro aveva vent’anni e giocava nel suo ruolo, “medio-centro”: correndo lungo il campo con lui in allenamento gli parlava di possesso palla e transizioni al ritmo di passaggi corti e rapidi, di centrocampisti vicini e inserimenti veloci. Era l’idea embrionale del tiki-taka che avrebbe scritto la storia del Barcellona. Daniele De Rossi, a distanza di undici anni, ancora se lo ricorda.