La penna degli Altri 22/07/2014 10:40
La grande crisi dei vivai Italia agli ultimi posti per strutture e investimenti
CORSERA (P. TOMASELLI) - «Puntare sui settori giovanili!, dicono. Ma se sono pieni di stranieri? Di cosa stiamo parlando?». Cesare Prandelli nell’intervista di ieri al Corriere della sera è sbottato. Demetrio Albertini ieri ha insistito sul rilancio dei vivai. Perché i giocatori eleggibili per la nazionale sono sempre meno: 38% secondo Prandelli, 45 % secondo i dati dell’ultimo campionato. Ma anche la qualità, oltre alla quantità, lascia a desiderare: nelle otto squadre impegnate nelle ultime finali scudetto Primavera (vinte dal Chievo) gli stranieri in campo erano il 35 %. La Bundesliga nel 2000 schierava il 30 % di giocatori con più di 30 anni. Nell’ultimo campionato i «vecchietti» erano il 15 %, l’esatta metà, a testimonianza di come il ringiovanimento del campionato e di conseguenza della nazionale di Low sia stato costante e nel nome della qualità e della concorrenza. Per questo non deve sorprendere troppo se in Germania il capitano della nazionale Philip Lahm si ritira a 30 anni dopo aver alzato la Coppa: a 22 anni nel mondiale vinto dagli azzurri era già titolare. Da noi, dove giocatori utilizzati sopra i 30 anni sono stati il 29% dei 612 impiegati nell’ultimo torneo di serie A, Balotelli e Immobile, 24enni con prole, sono considerati ancora genericamente dei «giovani». Ma in Bundesliga, dove i club devono investire il 10% del fatturato sui vivai, si spendono 4.4 milioni di euro a società per i settori giovanili, in serie A 2.75.
Juventus, Milan, Inter, Napoli, Roma e Lazio hanno convocato per il loro ritiro estivo 52 giocatori dal 1994 in poi: 23 sono stranieri. Ma il punto della questione, in un calcio globale in cui i grandi club ragionano su scala mondiale, forse non è nemmeno questo. Il punto è che l’obiettivo di produrre giocatori pronti per la prima squadra viene realizzato sempre meno. Gli unici ventenni che hanno già maturato esperienze significative con i «grandi» sono il senegalese-spagnolo Keita, talento della Lazio ex Barcellona, il milanista Cristante, gli interisti M’Baye e Kovacic. I giocatori che hanno giocato almeno tre anni nel vivaio di una squadra di A per poi continuare la loro esperienza con la stessa maglia sono appena 8 su 100 in Italia, la percentuale più bassa d’Europa. Dove non esiste solo il modello tedesco: secondo uno studio condotto sul campo dello Standard Liegi dall’associazione italiana preparatori atletici di calcio(Aipac), rispetto al Belgio siamo indietro nelle strutture, nell’investimento sullo staff a tempo pieno per i giovani e, fattore chiave, anche sulle ore di allenamento: forse non è solo una coincidenza che i ragazzi delle giovanili azzurre siano quasi sempre più «crudi» sul piano atletico dei loro coetanee. E meno male che nelle liste Uefa c’è l’obbligo di inserire 4 giocatori «autoprodotti» e 4 che siano usciti dal vivaio di un’altra squadra italiana: così almeno qualche ragazzo della Primavera ha l’opportunità di vedere la Champions senza pagare il biglietto.
La Juve ha due giocatori cresciuti con la maglia bianconera, campioni d’Italia con la Primavera nel 2004: Marchisio e Giovinco. Da allora nessun giocatore si è affermato stabilmente, anche se Marrone e De Ceglie hanno dato il loro contributo alla causa. Il Milan è fermo ad Abate e De Sciglio, in attesa di capire il valore di Cristante. L’Inter ha Andreolli, il Napoli, Insigne. La Roma ha le colonne Totti e De Rossi, a cui si appoggiano buoni giocatori come Florenzi e speranze come Romagnoli. La questione non è campanilistica: produrre al proprio interno giocatori per la prima squadra, come testimoniano i casi di Barcellona, Ajax (con il suo obiettivo programmatico: «ogni due anni, tre giocatori per la prima squadra»), Bayern Monaco, Arsenal o nel nostro piccolo, l’Atalanta (che ha 8 giocatori usciti dal vivaio), rappresenta un grosso vantaggio economico (la vendita di Balotelli, arrivato a 16 anni, è un esempio della buona produttività del vivaio interista) e uno strumento fondamentale per mantenere l’identità di un club, soprattutto se multinazionale.Ripartire dai ragazzi, ragionando sul lungo periodo, conviene. Sotto tutti i punti di vista.