La penna degli Altri 23/04/2014 11:00
Il calcio delle cicale: 5,9 miliardi di euro in fumo
CORSERA (F. MONTI) - È stato il presidente del Coni, Giovanni Malagò, a lanciare il sasso nello stagno. Lo ha fatto lunedì a Radiorai: «Il calcio italiano non ha i soldi degli sceicchi; quasi ne faccio una malattia, se penso che quando avevamo il vento in poppa, invece di spendere e spandere in ingaggi favolosi a giocatori non eccelsi, i presidenti avrebbero potuto investire qualche milione per fare un mutuo e rifare lo stadio».
Vale allora la pena di ricordare che nel periodo compreso fra il 1° luglio 1999 e il 30 giugno 2010, le società di A hanno incassato dalla cessione dei diritti tv 5.909 milioni di euro (5.060 milioni per i diritti criptati e 849 per i diritti in chiaro) e hanno presentato un debito vicino ai 2.000 milioni di euro.
Il 1999 è l’anno in cui i diritti criptati diventano soggettivi sulla spinta dell’allora presidente della Roma, Franco Sensi, che si era battuto perché la vendita centralizzata riguardasse soltanto i diritti in chiaro (quelli di «90° minuto», Coppa Italia, «Tutto il calcio»). Dal 1° luglio 2010 i diritti criptati sono tornati ad essere collettivi (legge Melandri, primavera 2007), con la Lega che ha affidato la vendita di tutti i diritti tv a un advisor, Infront. La tv è sempre stata una specie di Eldorado per il calcio italiano, da quando nel giugno 1981, l’interesse di Canale 5 aveva posto fine alla famosa formula, dopo un tempo di una partita di A: «La trasmissione è stata effettuata con la collaborazione della Lega nazionale calcio».
Nel 1990, la Lega era riuscita a vendere i diritti di A e B per 324 miliardi di lire per tre anni. Nel periodo 1996-1999, le 38 società erano riuscite a portare a casa 1.198 miliardi di lire fra diritti in chiaro (Rai) e criptati con la nascita di Telecalcio (270 miliardi), cioè la possibilità di vedere la partita di una squadra in diretta. L’introduzione dei diritti individuali ha rivoluzionato lo scenario. Nella prima stagione (1999-2000), le società di A e B avevano incassato l’equivalente di 401 milioni di euro, cifra salita a 687 milioni nel 2008-2009, grazie anche all’introduzione del digitale terrestre (gennaio 2005). La contrattazione individuale ha creato forti diseguaglianze e infinite polemiche fra i club. Un esempio. Nel campionato 2007- 2008, la Juve aveva incassato 92 milioni, l’Inter 87, il Milan 84, l’Atalanta 14, l’Empoli 12 e il Siena 11. Al di là di questo aspetto conflittuale, la domanda è: come sono stati utilizzati questi soldi dalle società? Nel modo indicato da Malagò.
Juve a parte, nessuno ha pensato di destinare una fetta dei ricavi alla costruzione di uno stadio di proprietà. Non solo, ma l’improvvisa ricchezza ha prodotto una scarsissima differenziazione delle entrate, al punto che i diritti tv hanno finito per diventare la più importante fonte di ricchezza e hanno ridotto l’attenzione per altri possibili introiti (merchandising, impegno contro la contraffazione dei marchi, aumento delle presenze negli stadi, sempre più vuoti). E a partire dal 1999 si è scatenata la corsa all’acquisto al rialzo dei giocatori, soprattutto stranieri (molti con storie misteriose, perché i fuoriclasse sono sempre investimenti), a un allargamento sconsiderato delle rose, a una lievitazione infinita degli ingaggi dei giocatori. I quali hanno fatto a gara ad alzare il livello delle richieste economiche, per continui ritocchi di ingaggio (anche due in una sola stagione). In A, gli stipendi sono stati distribuiti a pioggia, offrendo cifre fuori mercato alla fascia mediana dei giocatori: strappare un triennale ha significato mettersi a posto per due generazioni. In più c’è stata Calciopoli. E il risultato finale è che i soldi sono finiti. I fuoriclasse vanno altrove e chi c’è rischia di dover partire. I club stranieri ringraziano.