La penna degli Altri 23/10/2013 10:22

Un ti amo è senza condizionale

IL ROMANISTA (T. CAGNUCCI) - Basterebbe che qualche radical chic e qualcuno dell’Osservatorio leggesse un paio di nozioni elementari di linguistica per risolvere in maniera più giusta la questione della discriminazione territoriale e capire che certi messaggi non sono violenti in sé; basterebbe leggere Ferdinand de Saussure e conoscere la differenza fra segno, significante e significato per interpretare correttamente certi messaggi (magari come provocatori, paradossali o addirittura "unificanti" comunque sicuramente non discriminatori); basterebbe capire che un "sì grazie" persino corredato da un sorriso può essere più falso e violento di un "vaffanculo" detto col cuore per amore; basterebbe invece un demente per capire che i cori fatti per esempio domenica a Firenze pro Liverpool con riferimento all’Heysel (ma i benpensanti hanno mai "ben pensato" all’Heysel?) sono infinitamente peggio di certi sfottò "territoriali", o che anche – seguendo la loro stessa logica - un "romano bastardo" al limite è discriminatorio allo stesso modo; basterebbe conoscere la storia del calcio per farla finita con l’oziosa stronzata che un volta allo stadio non c’era violenza e ci andavano le famiglie quando cariche, invasioni di campo, risse non solo fra tifosi, ma fra calciatori e tifosi (negli Anni 30 mitico il match fra Bernardini e Ferraris con alcuni tifosi del ), dirigenti, squadre e arbitri nascosti nello spogliatoio scortati da volanti della polizia, punti in testa ad allenatori, lanci di monetine, fanno parte dell’antichità del calcio, così come nel tempo invece è aumentata esponenzialmente la frequentazione al femminile dello stadio e quindi - saltando qualche passaggio logico - delle famiglie.

Basterebbe capire che una certa qual forma di antagonismo dev’essere benedetta perché ogni pensiero dominante è pensiero violento, e ogni pensiero dominante non è autenticamente tale, ma debole, inutile, dannoso, retorico; basterebbe conoscere la storia del costume, del cinema, forse d’Italia o un altro paio di nozioncine di sociologia o di antropologia culturale (va bene pure un manuale di Etnologia) per cercare di leggere le cose per quelle che sono; basterebbe punire solo i colpevoli e non gli innocenti, basterebbe fare giustizia e non giustizia generalizzata, basterebbe punire i colpevoli quando i colpevoli ci sono, e basterebbe non inventarseli quando invece servono per spostare l’attenzione su qualcos’altro (qui solitamente scatta l’accusa di "benaltrismo"); basterebbe capire che c’è una discriminazione economica quando si mettono i prezzi dei biglietti troppo alti, che sicuramente c’è una discriminazione territoriale quando impedisci l’acquisto dei biglietti in certe zone e in altre no; basterebbe capire "perché" e non "chi".

Basterebbe capire e basterebbe affrontare il razzismo quand’è razzismo, perché il razzismo è una cosa seria e non può essere confuso con slogan cantati alle elementari, dai tempi delle elementari del Regno delle due Sicilie (giuro non è discriminazione questa); basterebbero talmente tante altre cose da dire (l’ovvia considerazione che così ti esponi ai ricatti, che è stata proprio la curva B del con un mix di goliardia, intelligenza e paradosso a lanciare di fatto la sfida alla Pubblica Ottusità, eccetera eccetera) ma non è mai abbastanza. E quindi lasciamo perdere. Su questo piano hanno vinto loro. Bisogna stacce. D’altronde come fai a difendere una posizione di fronte a chi ti accusa: "che difendi gli insulti razzisti?". Basta così. Basta difese. Lasciamo perdere questo discorso a perdere. Let it be. D’altronde con chi chiude e sanziona soltanto un colloquio del genere è impossibile, e in fondo resta un discorso sulla difensiva e in negativo. Oggi, e proprio oggi 23 ottobre, sarebbe bello capire e proporre un’altra cosa: quello che di bello c’è nelle curve. Una nuova critica del Giudizio, un inno al bello.

Andare all’attacco, rilanciare, dimenticare, perdonare, far vedere, costruire, sparigliare. Raccontare quello che c’è di bello e che si può dire, cioè quello che si vede e che è incontrovertibile, quello che nemmeno loro possono confutare. C’è una cosa soprattutto che è diventata merce rara in questo mondo che mercifica tutto proprio perché è senza valore, si chiama passione. La passione è quella che ti fa alzare la mattina presto e andare in trasferta, quella che ti fa preparare il bandierone, la coreografia, con o senza colletta, che ti fa perdere la voce durante e già prima della partita, e tante amicizie, e chissà qualche amore (ma è vero amore quello che non ama il tuo?) durante la settimana, che ti fa dare senza ricevere, che ti fa dare non per ricevere, che ti fa strillare, sotto l’acqua, il sole, la neve, urlare al cielo, bestemmiare e pregare insieme, abbracciare un estraneo, conoscerlo, volergli bene o meno ma avere a che fare con lui. La passione è il contrario dell’indifferenza. I tifosi, gli ultrà (sì usiamola questa parola tabù) sono il contrario degli indifferenti che da Dante a Pasolini giustamente venivano collocati nell’anti-Inferno, nemmeno meritevoli di entrare nell’Ade. La passione per la Roma per esempio, o per il , per il Toro, per la Spal, per qualsiasi squadra (sì persino per quelli) può essere mai una cosa brutta? Può essere mai il problema dell’Italia la gente che va allo stadio?

La passione pura e semplice, al netto di tutte le iniziative di beneficenza, delle raccolte di fondi fatte per chi è in difficoltà, delle attrezzature comprate per gli ospedali, delle visite nelle carceri, dell’impegno civile e concreto nei casi per esempio delle alluvioni a Genova, o in Piemonte o in Campania (qui non c’è nessuna discriminazione) fatte da tante curve da tanti anni, questo lasciamolo perdere. Questo sarebbe troppo facile come discorso e non esaustivo, quello che conta è proprio la passione per il calcio, e proprio perché è un gioco, perché se metti impegno lì lo puoi e lo sai mettere quando le cose sono serie. Perché la passione se la metti lì, se la metti a gratis, a perdere, senza nulla a pretendere, tranne la poetica anacronistica pretesa di cantare quella tua stessa passione, per qualcosa che non ti dà soldi, che anzi ti toglie in quei termini, e in termini di tempo e addirittura (appunto) di libertà, la puoi e la sai mettere dappertutto. Fai vita.

La passione è impegno, è per, è costruttiva, è propositiva, la passione è verso non contro, anche un coro contro è un coro per, nella stessa misura in cui un coro contro è un coro d’amore. Il regista Antonioni (Michelangelo non Giancarlo) disse una volta che "l’amore reca in sé il peso dell’offesa altrui", tradotto: un forza Roma reca in sé per forza un "lazio schifo fa...". Davvero il problema dell’Italia è colpire le persone che vanno allo stadio? Davvero questo fa paura? Forse sì, è così. Perché forse non lo sai ma pure questo è amore, un’altra parolaccia da abrogare, da mercificare in cioccolatini e in trasmissioni rivoltanti, in soap opere e modelli estetici infami. Oggi nel tempo in cui chiudono le curve con la condizionale, proprio oggi 30 anni fa una Curva invece usò un indicativo e scrisse una cosa: "Ti amo". Era il 23 ottobre 1983. Oggi, trent’anni fa. Ti amo, tempo presente indicativo di un sentimento che non è mai finito. E anche quell’amore che stanno zittendo, è anche quello che stanno chiudendo, è anche a quello che vogliono mettere la condizionale senza sapere che non ci riusciranno mai, perché un "Ti amo" accetta solo le sue condizioni: quelle che non ha.