La penna degli Altri 14/10/2013 12:38
Daniele, Marco e Andrea la gloria dura un attimo
La leva alcistica del '77. Non quelli che hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro. Peggio. Quelli che da ragazzini hanno persino vinto, sono giunti a un centimetro dal sogno, ma non stanno nelle canzoni di De Gregori e non ridono dentro a un bar. «Non ne parlo volentieri», dice Andrea, romano, zona Portuense: lavora in un supermercato al Vaticano. Marco, cresciuto a Ponte Lanciani, fa il geometra e mormora che «certe sere ci penso ancora». Daniele, di Trastevere, serve ai tavoli di una pizzeria a Testaccio: «Non so se invidio chi è arrivato in A. Se dico che volevo esserci io è invidia?».
Stessa generazione di Totti. Daniele, Marco e Andrea sono l'altra faccia della sua immortalità. I primi due sono campioni d'Italia Allievi con lui, il Capitano, gol di Daniele in finale contro il Milan. Poi vengono i sogni, e un attimo dopo il capolinea dei sogni, ora raccontati dal regista Paolo Geremei nel documentario "Zero a zero". «Andrea», spiega, «viveva nel mio quartiere, per noi era una leggenda. Un giorno lo vedo in strada che fuma, lui con questi capelli lunghi, bello, e mi chiedo: ma che fine ha fatto Andrea Giulii Capponi?». II film racconta il cinismo con cui il calcio nutre le speranze dei ragazzi, gli abbagli, gli errori, il peso del caso. «Non bastaessere bravi a giocare a calcio per diventare un giocatore di calcio», dice Caterini. Smise di essere una promessa da un giorno all'altro, la Roma gli offri di andare al Guidonia per 300mila lire al mese. Che a quindici anni fosse più bravodi Buffon giànonse lo ricordava più nessuno. «Io volevo sentirmi un calciatore». Lui che non conservava né coppe né maglie, pensando che altrimenti avrebbe riempito casa. «Invece non ne ho neanche una per il cal-dotto o per regalarlaa mio figlio». Si senti di nuovo calciatore anni dopo, quando il suo Fiumicino ritrovò la Roma in amichevole, fece i miracoli, compreso un rigore parato a Paulo Sergio.
Pure Andrea si domanda cosa sia successo. In quel ritiro a Lava-rone, una sera lo vedono chiacchierare con una ragazza in una stradina laterale. Franco Tancredi lo rimprovera, Mazzone lo restituisce alla Primavera. Fine, mai più unaseconda chance: sei un nazionale, sei stato con la prima squadra al Bernabeu, eallora?Non importava più. Giulii Capponi scese fra i dilettanti con una domanda: «Ma il campo è in erba o in terra?». Era di polvere. Daniele perlomeno sa che tutto è finito a Norcia, il giorno in cui contro il Palermo infila il piede in una buca e gli salta il ginocchio. Sbagliano a mettergli una vite, dal ginocchio il dolore sale nella testa. «Ricordo la disperazione di chi mi stava vicino. I miei pensieri fissi: mi ammazzo. Non accettavo l'idea di dovermi curare». Ha un pallone con il numero 10 tatuato sul braccio, nella stanza le foto di Maradona e il disegno delle articolazioni di un ginocchio. Complesso, come il cervello. Daniele si è liberato dei fantasmi, ora ne ride. «Vivevo al primo piano, pensavo: non posso neppure buttarmi giù». Gioca a calcetto con gli amici, Caterini in porta, ancora insieme. Tutti e tre insegnano ai bambini come si sta in campo.
Sfiorare la vita che volevi non è un destino che si accetta, al massimo ci si rassegna. Come nel film raccontano sconsolati i genitori. Daniele: «Non ho fatto quello che ero nato per fare, c'è dentro di me una malinconia e ci sarà sempre». Per Marco non è tristezza, «è rabbia, ma rifarei tutto uguale»; Andrea parla di «feritina aperta». Quando i ragazzi di una scuola calcio hanno visto il film, se ne sono andati commentando: «A me non succederà mai». Candidandosi alla prossima grande delusione.