La penna degli Altri 10/09/2013 09:15

Al Tardini Totti vestì La maglia

Cercate di guardarlo: . C’è un’idea, dà la sensazione chiara di intravederlo. Tra le linee. È come quando devi fissare un puntino, un Andy Warhol, un Arcimboldi e poi vedi all’improvviso un’altra figura, ti si squaderna tutto, ti si apre un orizzonte come capita con uno dei suoi lanci. Tac, e capisci che quel puntino non era lui, ma qualcos’altro. Non quel 4, quell’8, quel 20, né tantomeno quel 17 marchiatogli da Carlos Bianchi. A un certo punto della sua carriera – e per un periodo nemmeno breve – è stato persino un sequel felliniano, un 9 ½. devi fissarlo perché non lo vedi all’inizio. Il suo primo numero è stato addirittura il 16, a Brescia, il suo primo gol lo ha fatto con la maglia numero 9, quella di Pruzzo. Quella maglietta è finita nelle mani di un vigile di Los Angeles prima di essere ricomprata da un collezionista. Forse adesso sta nella teca di una biblioteca di qualche pianeta, per rendere più affascinante il mistero delle prime maglie di Francesco (quella della Fortitudo era veramente tanto pesante e pizzicava più della lana). Tante, ma non la 10. La maglia è un ID nascosto sulla schiena: Best era il 7, Ardiles l’1, Tigana e Cruyff il 14, Paulo Roberto Falcão il 5, e poi c’è il 10 che – se possibile – è un identificativo più forte, perché innanzitutto – prima del singolo – (in)veste una razza di calciatori, quelli chiamati a trasformare il calcio, a trovare la mossa che cortocircuiti il computer impazzito a bordo, che scopra il vaccino per l’ultima influenza, che trasformi in mare una tavola di compensato.

La maglia numero 10 la devi saper portare, la devi saper meritare, se non vuoi passare per profano, persino per ladro, o, molto peggio, per raccomandato. Anche perché prima del calcio moderno i numeri di maglia che andavano dall’1 all’11 – quelli che dovevi veramente meritare e difendere – li potevi anche turnare, il terzino sinistro giocava col 3, c’era il ruolo: c’erano i ruoli e i posti di lavoro. Nel calcio moderno il numero è seriale, prefabbricato, scelto da 1 a 99 (sperando di non morire un giorno nelle centinaia) precariato. , il numero 10 per eccellenza, è stato un 4, un 8, un 9, un 9 e ½, un 16, un 20, un 17... La maglia è un identificativo e è un Ufo. Soprattutto appena avvistato, da ragazzino, non è stato facile vedere quello che pure aveva scritto nel nome: è diventato un 10 pur essendolo sempre stato. Francesco è diventato se stesso.

La prima volta con la maglia numero 10 è un grande indizio sparso dalla storia: il 30 ottobre del 1994, a Parma, stadio Tardini. È ancora il cucciolo che Mazzone sta svezzando, un ragazzino che diventa rosso a sfiorarlo con lo sguardo, un diciottenne alla sua vera prima grande stagione. Indossa la numero 10 contro il Parma, finisce1-0 per il gol di Gianfranco Zola, un altro numero 10. Risultato e marcatore allo specchio: 1-0. Francesco è appena entrato nel paese delle meraviglie. Lo troverà meraviglioso un altro 30 ottobre quando segnerà la vittoria più storica – fino a quel momento – della Roma. A Madrid contro il Real, 1-0 col numero 10. Specchio, specchio delle mie brame... Qual è la formula magica per indossare quella maglia? Non c’è. È un percorso di crescita. Gradoni e coglioni. La numero 10 arriva tardi, arriva dopo l’esordio di Boskov, dopo i tre anni di Mazzone, dopo l’anno buttato di Bianchi. Giuseppe Giannini, il Principe, il Dieci, se ne è andato insieme a Mazzone, ma la Carlitos-way ha imposto il divieto al naturale passaggio di consegne. C’è un anno vacante, come appeso a un numero che cercava il suo proprietariotipo un personaggio in cerca d’autore di Pirandello – apposta quella stagione Francesco ha rischiato di andare alla Sampdoria o al Cagliari (c’era pure il Tottenham che, visto la radice del nome, poteva essere un bel destino e un autentico approdo visto che negli Spurs ha giocato il più grande 10 della storia dopo : Glenn Hoddle). La numero 10 arriva tardi, arriva nella stagione 1997-98, soltanto con Zdenek Zeman, l’uomo che chissà perché sarebbe dovuto essere la negazione dei fantasisti, dei lampi, del numero 10.

Cazzatissime. Pensateci, incluso il campionato dell’esordio, il Dieci per definizione – tanto da farci gli spot – ha avuto un altro numero per cinque campionati: 1992-93, 1993-94, 1994-95, 1995-96, 1996- 97. E poi il 10 non se l’è preso: gliel’hanno dato. Lui non l’aveva chiesto, non l’avrebbe mai fatto, non ci avrebbe nemmeno pensato. L’idea fu di Abel Balbo, di Marco Delvecchio e di Gigi Di Biagio, piacque immediatamente a Zeman e al presidente Franco Sensi («era giusto che la prendesse Francesco quella maglia»). Francesco, invece, sembrava quasi non vedesse l’ora di darla a qualcuno, di darla via, come non fosse pronto a indossare un destino che pure aveva scelto già mille volte sin da ragazzino: "La regalerò al Principe, ma non pretendo che la appenda in camera. Sì, la prima che userò la regalerò a Giannini. Spero non la getti ma la usi, perché non credo che la moglie, Serena, gliela farà appendere in camera come feci io con la sua. A me basterebbe la indossasse,magari giocando solo a calcetto. Sinceramente non ci pensavo, credevo di avere la 20 che mi diede Mazzone. Lui, il tecnico a cui devo tutto, ha gestito il mio impiego creando anche polemiche, gli sono grato. Il 10 è un onore, ma so bene di essere ancora piccolo".

L’immagine è sempre la stessa, quella di un ragazzino della Fortitudo a cui hanno dato una maglia più grande. Il Piccolo Principe che si mette a contare i puntini, i soli, i mondi, si ritrova con la prima doppia cifra possibile nella vita, con la cifra più tonda che ci sia, con un impegno: un’identificazione. Il 10 è un io. Io. 10. . Non è un caso che Francesco sia sbocciato una volta e per sempre con quel numero sulle spalle, da Zeman al Mondiale, passando per le Coppe, la Scarpa d’Oro, la classifica cannonieri, le magie, tutti i record e tutti quei numeri infiniti che sono compresi fra l’1 e lo 0. L’io di è un 10. Per Francesco si è sempre trattato esattamente di questo: realizzarsi. E lo ha fatto il 17 giugno 2001 quando è diventato campione d’Italia. "Il momento più bello della mia carriera è stato il 2001, quando abbiamo vinto lo scudetto. Era un sogno che avevo da quando ero bambino e che sono riuscito a realizzare, anche perché come ho sempre detto vincere uno scudetto a Roma è come vincerne dieci da un’altra parte in Italia. Quando sei giovane pensi e speri di calpestare il prato dell’Olimpico, però era più un sogno che la realtà. A Roma poi... Erano vent’anni che non si vinceva un titolo e quando l’abbiamo fatto è scoppiato il delirio. La gente diventa pazza, non capisce più niente, farebbe qualsiasi cosa per questi colori". Pure lui. Quel giorno Francesco per quei colori ha fatto una cosa: ha vinto e ha pianto. Vito Scala: «È stata la prima volta che l’ho visto piangere». si è sciolto in Francesco. È stato soprattutto un modo per vincere la sua timidezza, certe sue rigidità, più che la gioia della risposta, finalmente, a quelle chiacchiere di non aver mai vinto niente, di non essere mai decisivo... In quelle lacrime scorreva il senso di una vita, il racconto di una mamma: "Abitavamo a via Vetulonia, con i miei genitori. Stavano molto male tutti e due e io non volevo che Francesco vedesse i nonni soffrire, così lo portavo a giocare a pallone. Dapprima sotto casa, poi a sei anni alla Smit di Trastevere e poi più tardi alla Lodigiani. Ma si vedeva sin da piccolo che era forte di gambe. Quando aveva nove mesi siamo andati in villeggiatura sull’Adriatico, lui camminava già sulla spiaggia spingendo un pallone. Faceva ridere tutti, ho ancora le foto. Il pallone, lui, ce l’aveva dentro. Ma Francesco da piccolo pensava solo a giocare e a divertirsi. Lo accompagnavo in macchina agli allenamenti, prima due volte a settimana, poi quando è passato alla Lodigiani tutti i giorni. Da San Giovanni a San Basilio, ogni pomeriggio. Portavo lui e il suo compagno Giuseppe Capano. Non lavoravo, mi dedicavo ai miei figli e ai miei genitori. Finito l’allenamento lo accompagnavo al catechismo e gli imponevo di fare i compiti. Gli ripetevo: Francesco, tre sono le cose più importanti, la famiglia, lo studio e il calcio. Se dovevo punirlo, gli vietavo di giocare a pallone e lui soffriva. Poi è passato alla Roma, ma noi siamo rimasti sempre con i piedi per terra, vivevamo questa avventura con serenità, senza affanni. Quante mamme deluse ho visto in quegli anni... Certo sono stati sacrifici, ma sacrifici d’amore che non mi sono pesati. E poi io pensavo sempre che era meglio portarlo fuori che tenerlo a casa con i nonni malati".

è nato due volte, la seconda per giocare a pallone: a nove mesi – il tempo di una gravidanza – palleggiava. Ed è stata ancora sua madre a farlo nascere anche la seconda volta. Ecco perché gioca così bene a pallone: c’è tutto l’amore possibile in campo. ha cominciato a giocare a pallone perché quella è stata la risposta di una madre alla morte. Una mamma che sceglie la vita, e quel giorno di giugno Francesco gliel’ha restituita. È una questione di maglia, quella che Fiorella faceva in attesa degli allenamenti, quella che gli infilava da ragazzino ragazzino, quella che Francesco doveva imparare a portare per sentirsi meno piccolo perché soltanto così i sogni si realizzano. È quello che Francesco quel giorno le restituisce, il senso di una vita: una maglietta numero 10: "Il venerdì sera Francesco mi ha detto: mamma, domenica all’Olimpico ti voglio vedere con la mia maglietta numero 10. «Ma stai scherzando? – gli ho risposto – tu lo sai che non mi va di mettermi in mostra, allo stadio mi conoscono tutti...». E lui insisteva. Quella notte pensavo: mio Dio, cosa devo fare? Mio figlio mi chiede questo, non posso deluderlo, ma come faccio ad arrivare lì con la maglietta addosso?! Alla fine l’ho accontentato e per non farmi riconoscere ho indossato un cappellino nero e gli occhiali scuri. Ero tesa, ma dentro di me molto serena. Quando l’ho visto entrare in campo, mi sono commossa. È stato come un flash, mi sono passate davanti, in un attimo, le immagini di Francesco piccolo che giocava a pallone, i suoi primi allenamenti. M’è tornato in mente quella volta che ancora ragazzino, quando aveva appena cominciato a giocare con la Roma, mi disse: voglio fare un gol l’ultima giornata dello scudetto. Io sono una donna riservata e semplice, sono schietta e mi piace dire tutto quello che penso. Odio le ipocrisie. Sono una donna serena e questa serenità, il mio cammino di fede, penso di essere riuscita a trasmetterli ai miei figli. Meriti? No, non ho nessun merito. Il merito è tutto di Francesco. Lui è bello e ricco dentro, ha un carattere così forte. Chi poteva immaginare tutto questo? Ma lui voleva arrivare e questo desiderio se lo teneva per sé, nemmeno noi ci siamo resi conti subito quanto era determinato. Sognava e il suo sogno s’è avverato. Poi ha fatto il gol e io ho avuto un attimo di sbandamento, tant’era la gioia. Mi è caduto il cappellino e tutti mi hanno riconosciuta. Guarda la mamma di , urlavano. Ma era così bello... A fine partita sono esplosa, pensavo allo zio che non c’è più, era un tifoso romanista e come gli sarebbe piaciuto vedere Francesco. Pensavo ai nonni. Ho pianto".

Contro il Parma, una sera, un ragazzino indossò per la prima volta la maglia numero 10 della Roma sognando il giorno in cui tutti i suoi sogni si sarebbero potuti realizzare. Contro il Parma, un giorno, una mamma indosserà per la prima volta la maglia numero 10 della Roma. Quel giorno suo figlio se la toglierà dopo aver segnato il gol dello scudetto e, indicando la tribuna, gliela restituirà, urlandole: «È vostro, è vostro». Soltanto così i sogni si realizzano: diventando la stessa cosa. Mamma Roma.