La penna degli Altri 11/12/2012 15:57
Eriksen: "Non sono un tattoo boy, ma lascerò l'Ajax. Il mio idolo? Totti"
Il futuro a breve termine però è l'Europa League.
«L'Europa League e una bella stagione con l'Ajax. Non so ancora che cosa farò fra qualche mese, ma prima di proseguire voglio lasciare un segno qui. E la finale di Europa League a casa nostra è un bello stimolo».
Dicono che a lei piacerebbe soprattutto andare in Spagna, al Barcellona.
«Chi non sogna il Barça? Ma io credo che il mio futuro sarà fra Spagna, Inghilterra, Italia e Germania. Questi campionati mi piacciono e vedrò le chance che mi si presentano».
Quando ha colto la prima, era giovanissimo, 16 anni.
«Ero pronto per venire ad Amsterdam. Ho cominciato a giocare a calcio a 2 anni, mio padre è stato il mio primo allenatore, mia madre allenava mia sorella. Mia sorella Louisa gioca ancora in una squadra vicino al nostro paese».
Una famiglia devota al calcio.
«Amiamo il calcio e abbiamo le stesse passioni. Siamo molto uniti, per anni siamo andati in vacanza insieme a Jesolo, con il caravan. La mia famiglia, anche i nonni, adorano l'Italia. Tutta la gente del Nord va a cercare il sole».
È nato in un posto piccolo. Le piacciono le metropoli?
«Amsterdam è una grande città particolare. Qui nessuno ti viene a cercare a casa se perdi una partita. È capitato che abbiano bussato alla porta per un autografo, una volta sola».
La sua popolarità sta crescendo. È un fastidio?
«È una parte dell'essere calciatore che bisogna accettare. All'inizio la mia timidezza era un problema, ma sto imparando ad uscire dal guscio».
Che rapporto ha coi soldi?
«Non sono una priorità. La mia priorità è progredire e diventare un grande calciatore»
Da bimbo che idoli aveva?
«Totti. Giocavo con la playstation e lui era nella mia squadra e così ho cominciato a seguirlo. Ma il mio vero modello è Miki Laudrup. Ho letto pochi libri, però la sua biografia l'ho divorata».
Che cosa significa essere un dieci?
«Non lo so. Io non ho il dieci. Certo, mi sento un 10, ma con la maglia n. 8 le pressioni sono minori. Quella maglia invece è pesante in qualsiasi squadra, anche se in fondo è solo un numero».
Come descriverebbe il suo calcio?
«Con un solo verbo: attaccare. Sono un centrocampista e cerco di attaccare e difendere, ma devo trovare continuità».
Meglio il risultato o il bel gioco?
«Se non giochi all'attacco non vinci. Puoi ottenere qualche risultato, ma i successi non casuali sono frutto del gioco».
Come vede il calcio ai tempi della crisi?
«È un periodo strano, eppure non credo che il football finirà mai. Bisogna cercare altri metodi anziché affidarsi ai soldi dei ricchi. Qui non spendono, qui costruiscono: l'Ajax è un club diverso da tutti».
Ma prima o poi si va via...
«Sì, ma voglio farlo al momento giusto, e nel modo giusto, perché qui ho imparato tante cose e non voglio lasciarli a mani vuote. Vincerò ancora qualcosa e andrò altrove: è una sfida per crescere».
La persona più importanti per la sua crescita?
«Frank de Boer. Mi ha allenato nelle giovanili e mi ha dato fiducia in prima squadra».
La sua qualità migliore?
«La creatività in campo».
Fuori dal campo?
«Sono un tipo regolare».
Tatuaggi, creste?
«No, non sono un tattoo boy. La mia ragazza vorrebbe che mi facessi qualche tatuaggio, ma io non ci penso proprio».
Alcune star del calcio ne hanno parecchi.
«Ma io non sono una star. Faccio una vita normale: vedo gli amici, vado al cinema, sto attento a quello che mangio. Credo che non potrei desiderare una vita migliore: alle due del pomeriggio sono libero e ho tutto il tempo di fare quello che voglio. Cerco di usarlo bene».
Sente pressione, ora che tanti club la cercano?
«Il talento porta pressione. Però avere talento significa essere fortunati. Non credo che il mio talento andrà sprecato».