La penna degli Altri 20/12/2011 09:28

Né italiano né spagnolo: Luìs Enrique in 10 mosse


E vai coi reportage da Spagna, Inghilterra, i riferimenti obbligati a Cruyff e a tutta quell’Olanda là, che poi è la scintilla che infiammò trasformando per sempre la Catalogna calcistica in quello che è adesso. L’abolizione del ritiro consentì alla Roma di Spalletti di diventare la Roma di Spalletti. Era la vigilia di Roma-Basilea, metà dicembre, la società disse di no, ma l’allenatore pubblicamente difese la sua posizione che era la stessa della squadra. La Roma vinse 3-1. Probabilmente segnarono Lamela, Osvaldo e Simplicio. 

2 - LE PAROLE DEL CAPITANO. Basterebbero le parole di dopo la partita a chiudere la discussione. Non tanto la dedica perché quelli che vogliono aver ragione l’hanno persino interpretata come un contentino (!) da dare all’allenatore che peggio di Galileo avrebbe abiurato a tutte le sue idee tecnico-tattiche (!!!), come se avesse bisogno di queste cose, come se la parola di non pesasse di per sé e non andasse da sola oltre tutto questo. Non la dedica da capitano e da grande romanista, ma semplicemente quello che ha detto sul modo di giocare: «Luis Enrique vuole che attacchiamo e copriamo tutti insieme, è quello che ci ha sempre chiesto». Poco dopo hanno fatto eco a queste dichiarazioni, quelle di Rosi. Per non citare Simplicio – pure reietto dall’asturiano – che ha «Luis Enrique mi abbia pronosticato il gol». Come se il tecnico addirittura ci capisse di calcio, come se la sua scelta non fosse casuale... Strana la vita: sono i giocatori a dire che giocano come vuole il proprio allenatore, ma per la stragrande maggioranza della critica non è così. In fondo è logico: c’è del metodo nella sua pazzia, diceva Polonio. E ne era convinto.

3 - I FANTASTICI QUATTRO. L’argomentazione forte dei Torquemada de noantri ieri mattina era questa: «Hai visto la Roma di : aveva solo quattro giocatori nuovi rispetto all’anno scorso? E’ emblematico no?»: Sì. Avoja. E’ talmente emblematico da diventare un’equazione: se sette giocatori sono rimasti gli stessi dell’anno scorso, quando la Roma non c’era e prendeva – per esempio – la sveglia andata e ritorno col , cos’è cambiato? Se la variabile più variabile che ci sia è una costante, il fattore che fa la differenza è quello che rimane, cioè l’allenatore. Che si chiama Luis Enrique Martinez Garcìa. Per la precisione i quattro nuovi di quest vecchia Roma erano a , Maarten Stekelenburg, Gabriel Heinze, Daniel Pablo Osvaldo, Erik Lamela. E’ anche guardando ai sette samurai della vecchia guardia che l’impronta di Luis Enrique si vede nitidamente più profonda.

4- GLI ESTERNI. Aleandro Rosi e Rodrigo Taddei, loro c’erano per esempio, e uno come Taddei pare esserci sempre stato. Vero che forse a non sono stati tra i migliori, anzi, ma in questo discorso sono due perle, due esempi puri. Taddei soprattutto. Se c’è un uomo, un giocatore che per definizione – giustamente – era stato definito di Luis Enrique, quello era Josè Angel, lo spagnoletto tutto sale e pepe sul mancino venuto proprio da Gijon (una fede) e schierato sempre fino a un certo punto, cioè fino al punto in cui Luis Enrique ha cambiato lui la Roma. Angel all’inizio sembrava la certezza a sinistra. Quando per la prima volta – e per – Luis Enrique ha dovuto sostituirlo e ha scelto Rodrigo Taddei a San Siro apriti cielo! È venuta giù tutta la Santa Inquisizione. “Ma come si fa a giocare con Taddei a sinistra??”. Mossa naif, mossa strafottente, mossa senza senso. A nella italianissima Roma di Luis Enrique Rodrigo Taddei era a sinistra. E a destra c’era Aleandro Rosi. Che sta alla Roma praticamente da sempre, che secondo Spalletti sarebbe dovuto sbocciare nel giro di due anni, ma che fino a quest’anno era vissuto e considerato un esubero o un peso. Se son Rosi fioriranno.

5 - IL RUOLO DI . La settimana passata è passata scrivendo e chiedendo convintamente a Luis Enrique di confermare al centro della difesa della Roma. Troppo forte, troppo grande contro la . S’erano sprecati confronti ingenerosi con Franz Beckenbauer (ingenerosi per Beckenbauer), s’era sottolineato come in un momento del genere, in uno stadio come il San Paolo, contro un super avversario come il , al centro della difesa fosse una necessità, una sicurezza, anche psicologica per la squadra. Il rigore di Di Bartolomei per primo. Bene Luis Enrique, che è notoriamente un tipo che si fa condizionare dalla stampa – soprattutto in conferenza – ha ascoltato tutti, cioè nessuno, e ha rimesso a fare il volante davanti alla difesa. L’ha rimesso dove lui in questa stagione se l’è reinventato, dopo esserselo reinventato - inedito assoluto – come difensore centrale. E’ guardando all’uomo migliore che si capisce di chi sia questa Roma. 

6 - DICIASSETTE SU DICIASSETTE. Questa considerazione è un vezzo. Una rispostucccia. Un dispettino. Giusto per adeguarsi alla considerazione di chi dice che Luis Enrique è tutto pasta, catenaccio e mandolino e che ha stravolto abitudini tecniche, concettuali e comportamentali grazie al grande pungolo della stampa non asservita (una vera critica cosa fa se non questo, giusto? - si sente persino il borbottio che esce dalla barbetta alla Oscar Giannino -). «Adesso ha capito, adesso l’abbiamo raddrizzato, adesso ci dà retta». Adesso è come metà agosto, adesso per Luis Enrique è come sempre. Da Bratislava al San Paolo l’allenatore asturiano ma italiano della Roma ha cambiato diciassette volte in diciassette occasioni la formazione. Sì è vero, anche

qui hanno ragione loro: Luis Enrique al 100%!. 

7 - IL TRIDENTE. Più seriamente. I continui cambi di formazione di Luis Enrique sono stati davvero sistematici, ma nel senso che non sono stati un vezzo, né una sperimentazione in diretta sulla squadra o addirittura sulla pelle dei tifosi. Ma lavoro. Luis Enrique ha cambiato uomini alla Roma un po’ per trovarla, un altro bel po’ per necessità e il restante perché è il suo metodo. Lo ha sempre detto: «Il modulo cambia in base agli uomini che l’interpretano» (è un po’ come l’eterna querelle sull’improvvisazione della Commedia dell’Arte). Il reparto d’attacco è – come direbbero – emblematico: si può sostenere che , Lamela e Osvaldo sono il tridente titolare della Roma.

8 - LE ESULTANZE. Queste valgono più delle parole dei giocatori. Queste sono veramente confessioni a cielo aperto anche per chi fa finta di non sentire, anche per gli esegeti dell’impossibile. Al gol di Simplicio

Osvaldo sembrava , e ognuno degli altri tutti gli altri perché confusi nello stesso unico abbraccio. A fine partita le scene che si sono viste al San Paolo hanno veramente richiamato alla mente – e per la prima volta così bene – quelle della Roma di Spalletti che si scoprì Roma prendendosi a pizze dentro al campo. La battuta che questa Roma già si prendeva a pizze è una battuta fino a un certo punto. Gli abbracci di Osvaldo a Lamela valgono di più adesso, più di qualsiasi altro. Una squadra che fa così è una squadra, un gruppo così c’è solo se ci crede. Tutto questo succede solo se l’allenatore sente e fa suo lo spogliatoio. L’avrebbero potuto affossare con la
. Soprattutto per questo è la Roma di Luis Enrique. Ed è l’aspetto più bello.

9 - E . Considerazione tecnica e tattica. La Roma splendida di  e quella persino più rossa contro la è una squadra sì diversa dalle altre partite ma anche perché le ha giocate contro le due migliori squadre d’Italia, oltre al Milan. La volontà di potenza o l’intenzione rivoluzionaria non bastano mai, ci vuole sempre il principio di realtà. Contro la , così come contro il , se la Roma ha arretrato è anche perché è stata costretto a farlo. Un po’ è stata schiacciata. Una fortuna. Se gli esterni sono rimasti più dietro è perché la , soprattutto, e il di domenica sera (con Zuniga e Maggio) hanno spinto tanto lì. Dalla difficoltà nasce sempre una necessità, dalla crisi un’opportunità, dal caos una stella: tutto questo ha portato la Roma a essere più corta e più stretta fra i reparti, cioè ha portato la Roma a essere quella che Luis Enrique ha sempre chiesto. La sua Roma.

10 - LUI. «Io non sono cambiato», firmato Luis Enrique. A volte bisogna credere a un uomo, soprattutto a un

uomo che al San Paolo aveva quel sorrriso.