La penna degli Altri 08/10/2011 10:33

Sabatini: "Lazio e Roma, ecco tutti i segreti"

entrò in campo a dieci minuti dalla fine e sparò in Curva Nord il pallone del possibile pareggio. Finì quel campionato con 14 presenze e il ritorno al Perugia, dov’era nato e cresciuto. Oggi ha 56 anni, vive a Roma, è stato scelto da DiBenedetto e Baldini per progettare il sogno americano di Trigoria. Ma deve molto a Lotito e alla Lazio, passaggio fondamentale per rilanciarsi dopo i successi nel Perugia di Gaucci e prima di consacrarsi con il Palermo di Zamparini. E’ stato, da consulente e poi diesse, l’ideatore della squadra di Rossi, capace di volare sino alla e di vincere due derby contro Spalletti.

Oggi ha un sogno non confessato: portare lo scudetto alla Roma prima di ritirarsi. Viene considerato un talent-scout, in realtà conosce in profondità il calcio, che vede e decifra nel suo cono d’ombra. A Formello lavorava con estrema discrezione, spesso scrutando gli allenamenti da una terrazza. A Trigoria, dovendo riempire il vuoto in attesa dell’arrivo di Baldini, è stato costretto a vivere un’estate sotto i riflettori. L’ha chiusa con una conferenza-stampa vera, bucando le ipocrisie del calcio, per chiudere il caso -Luis Enrique che stava rischiando di smontare il progetto Roma in partenza. Da allora non aveva più parlato e così intende proseguire. S’è concesso una deroga, un’esclusiva con il Corriere dello Sport-Stadio, a otto giorni dalla sfida con la Lazio. Il suo passato e il suo presente in un’ora di chiacchierata nel suo ufficio in centro, quello usato prima di insediarsi a Trigoria, dove ha cominciato a partorire le sue ultime idee.

 

Mancano otto giorni al derby. Qual è il pri­mo pensiero del ds ?

«Una leggera inquietudine, non è un pensie­ro ma un sentimento. Perché definirla parti­ta normale mi sembra improprio. Non lo è anche se con la Lazio mi sono già incrociato diverse volte con il Palermo. Ho perso e vin­to, una certa abitudine ce l’ho, ma il derby è una circostanza diversa».

 

 

E’ toccato dal punto di vista personale?

 

«Sì, mi tocca. Dovrei considerarla una parti­ta da tre punti. Quando ci avvicineremo al­l’evento, non guarderò la classifica: sarò to­talmente risucchiato dai sentimenti».

Si sente romanista o non si è mai sentito la­ziale?

«Io sono stato laziale, sono stato laziale e di­rei anche con fede incrollabile in quel mo­mento storico della mia vita. E’ un passato che non rinnego, non l’ho fatto quando mi so­no presentato ai romanisti, non lo faccio alla vigilia della partita, anche se la Roma per me è una questione chimica. Non è stato diffici­le riaccendere una scintilla perché, se pur male, nella Roma ci avevo giocato, quindi è stata una sorta di immediatezza rituffarmi in quell’universo. Per la verità l’universo roma­nista lo devo ancora decifrare compiutamen­te ».

Cosa deve decifrare?

«L’universo Roma è ricco, variegato, imper­scrutabile. E’ pregno di sentimenti, di opinio­ni, di ansia, di arroganza, di generosità, di iro­nia, di prosopopea. Bisogna entrarci dentro, capire tutto è la mia priorità».

Quali differenze ci sono tra l’ambiente della Roma e quello della Lazio?

«Sono due momenti storici diversi della mia vita. La Lazio era una situazione collinare, di­co collinare perché l’eco della à arrivava attutita. In quel momento della mia vita agi­vo con le stesse funzioni, ma quasi completa­mente in penombra».

Perché ha chiesto a DiBenedetto se avesse capito cos’è il derby?

«Il derby lo capisce solo chi lo vive, non ba­sta un racconto. Era una segnalazione, si an­dava a tuffare in un’emozione smisurata. Ho voluto avvertirlo, mi pare abbia capito. Ha capito qual è il sentimento popolare anche se di Roma devo dire, ed è bene che tutti lo sap­piano, romanisti e laziali, si apprezza il sen­so dell’ironia. Non ha eguali in Italia».

Come arriva la Roma al derby? E la sente già sua?

«Ci arriva con una moderata tranquillità per­ché negli ultimi giorni alcune cose si sono ag­giustate, altre si dovranno aggiustare per po­ter essere competitivi. La Roma la sento già fortemente mia, la sento fortemente di un gruppo di persone che sta mettendo energie, forze, idee dentro questo progetto».

A luglio parlò del calcio arrogante di Luis Enrique. Sul campo lo vede?

«Sto vedendo alcuni bagliori di quel tipo di calcio, Luis lo sa. Ieri mattina mi diceva che si sente ancora neanche a metà del cammino».

Dove arriverà a fine cammino?

«La fine del cammino non significa necessa­riamente vincere le partite, anche se tutti vo­gliamo vincere. Ci arriverà quando avrà co­struito un’idea solida, forte di calcio, che po­trà essere interpretata dagli attuali e dai fu­turi calciatori della Roma».

Può un calcio nuovo pagare in una partita come il derby?

«Quella di Luis Enrique non voglio definirla un’idea nuova, ma solo un’idea del calcio. Il calcio è capiente di idee, fatti e misfatti. Non c’è niente di nuovo in quello che stiamo fa­cendo, ma solo qualcosa di preciso. Ovvero la voglia di interpretare la partita, di cercare sempre di costruirla attraverso le nostre qua­lità e un canovaccio condiviso da tutti i calcia­tori in uguali proporzioni. E facendo riferi­mento anche alla fatica. Se questo calcio sa­rà ferocemente applicato pagherà nel derby come in altre partite a prescindere dal risul­tato. Se fossimo stati legati al risultato, a Ro­ma già sarebbero successi gli sconquassi, in­vece abbiamo tenuto secondaria l’esigenza di vincere rispetto all’affermarsi di un modo di essere e di interpretare il calcio. Poi è chiaro che ci aspettiamo di vincere le partite. Anche parecchie partite».

DiBenedetto ha parlato di in tre anni. Non è troppo tempo?

«No. DiBenedetto fa coincidere i tempi spor­tivi con il consolidamento delle imprese so­cietarie, le operazioni che lui e il suo gruppo hanno in mente di proporre e produrre per la Roma. Ci vedo un sano e concreto realismo».

Qual è l’obiettivo sportivo della Roma que­st’anno?

«L’obiettivo sportivo non coincide con esi­genze di classifica. Quest’anno dobbiamo co­struire un modo di essere, che sia solido e che costituisca il denominatore comune a tut­ti i calciatori. Poi siamo coscienti che la reto­rica, nel calcio e anche nella vita, non deve essere prevalente sul pragmatismo che ser­ve per affermarsi».

Dieci acquisti la Roma, sette la Lazio. Chi ha operato meglio?

«La Lazio ha operato benissimo. Ha fatto del­le scelte mirate e volendo puntare ad un ri­sultato immediato, non voglio dire oggi ma per produrre risultati importanti nel giro di questa e della prossima stagione. La Roma ha cercato di integrare con un gruppo di gio­vani lo zoccolo duro altamente competitivo che già possedeva. Da questa sintesi tra nuo­vi e vecchi speriamo si produca un risultato accettabile nel presente e un grande risulta­to a breve termine».

Un grande risultato significa scudetto?

«Intendo un grande risultato, non voglio par­lare di scudetto. Starà ai tifosi stabilire qua­le potrà essere un grande risultato».

La Roma ha scelto una linea giovane, la La­zio giocatori più esperti. La differenza l’han­no fatta le idee di ?

«Sono stato scelto da DiBenedetto e Baldini per quello che ho potuto esprimere nel corso della mia attività e quindi era quasi normale la direzione che avrebbe preso il mercato del­la Roma. La Lazio ha fatto scelte importanti. A vederli oggi Klose e Cisse, due calciatori anagraficamente non giovanissimi, sembra­no due ragazzini. Hanno freschezza, voglia di fare, sono propositivi: mi stanno impressio­nando. Anche gli altri giocatori che sono an­dati a prendere sono di rendimento e molto affidabili. L’unica scommessa è Lulic».

Che ne pensa di Lulic?

«E’ contraddittorio. Tutto e il contrario, ma quando fa il tutto è impressionante in senso positivo».

Nel derby teme di più Klose, Hernanes o Cis­se?

«Dovrei rendere organico un discorso per tutti e tre i giocatori che si integrano a mera­viglia. Tutti e tre insieme sono portatori di tutte le soluzioni tecnico-tattiche dello scibi­le calcistico. Uno può agire di potenza, l’altro con opportunismo e c’è la tecnica. Il calcio è ampiamente rappresentato in tutte le sue for­me, quindi mi fanno notevolmente paura».

Reja è l’allenatore giusto per la Lazio?

«E’ stato sicuramente l’allenatore giusto per la Lazio. Se potrà essere l’allenatore giusto di questa Lazio dipenderà dalla sua fortuna, non certo dalle sue qualità, che sono cono­sciute ».

E’ contento sia in arrivo Baldini?

«Assolutamente sì. Sono già tornato nel mio cono d’ombra e sto facendo una deroga con questa intervista. Baldini sarà portatore di cultura e mentalità. Poi sarà l’interfaccia di tutte le componenti, non solamente calcisti­che, che caratterizzano l’attività di questa so­cietà insieme a ».

[...]

Perché su Lamela ha bleffato dicendo che non vi interessava?

«A un certo punto pensavo di non poterlo più prendere. Lamela era un affare molto delica­to, come nel caso di Pastore c’erano molte so­cietà interessate e allora bisognava tenerlo coperto. E’ stato sfortunato, è arrivato qui in condizioni di grande precarietà fisica. Sono certo che il futuro sarà suo. La Lazio? Non credo fosse interessata all’argentino».

E’ davvero il nuovo Pastore?

«Sono due giocatori diversi. Abbiamo tutto il tempo per apprezzare Lamela, ha 19 anni e un contratto lungo 5 stagioni. Non abbiamo nessun tipo di urgenza ».

E’ stato più difficile prendere Lamela o Be­hrami?

«Behrami era molto costoso. Lotito fece un sacrificio enorme, spese intorno ai 5 milioni. Una cifra compromettente per quella Lazio. Ricordo i suoi primi due mesi, non ingrana­va, anche Delio un giorno espresse qualche preoccupazione. Poi ha fatto bene. Acquista­re Lamela è stato più difficile e costoso. Pren­dere uno dal River Plate non è come prender­lo dal Verona».

La Lazio è stata vicina a prima che ar­rivasse la Roma?

«Non lo so. Io lo seguivo, non pensavo che il Lione lo cedesse. Quando si è appalesata que­sta possibilità, abbiamo deciso, facendo un sacrificio».

Nel suo passato un derby da giocatore con Liedholm. Entrò a dieci minuti dalla fine e sparò il pallone del possibile pareggio in Cur­va Nord. Ricorda?

«Sì e ancora oggi mi affligge, ricordo un nu­mero inimmaginabile di Bruno Giordano sul­la linea di fondo: bevuto Sandreani con un dribbling a rientrare sul e un siluro sparato sul primo palo. Uno spiraglio appena, il pallone finì all’incrocio dall’altra parte, Paolo Conti lo vide solo passare. Mi chiesi se era stata una magia e da dove fosse passata quella palla, non c’era spazio. Rimasi abba­gliato da Giordano. Tanto abbagliato che quando entrai in campo, Liedholm mi mise dentro senza riscaldamento, mi ritrovai l’oc­casione giusta per pareggiare. Sul cross di Pellegrini, per la fretta di colpirla, non feci scendere la palla e la mandai di sinistro in Curva Nord. Guardavo il pallone finire la sua corsa dietro i raccattapalle e mi chiedevo “perché sono qui?“. Il mio calcio non si può raccontare, era frammentario...»

Da ds della Lazio ne ha vinti due.

 

«Uno 3-0 e uno 3-2. Ho un ricordo importan­te, legato al primo. In quel periodo Cristian Ledesma era subissato dai fischi e dalle con­testazioni. Il sabato, dopo la rifinitura a For­mello, mi ritrovai in panchina seduto accan­to a Cristian. Gli dissi: “Non ti preoccupare, vedrai che un giorno tirerai un siluro che an­drà all’incrocio dei pali o giocherai una par­tita che si alzerà tutta la gente dell’Olimpico per applaudirti”. La sera dopo, quando vidi Ledesma tirare all’incrocio e sbloccare il ri­sultato, mi sembrò di essere un uomo parti­colarmente fortunato».

Se Delio non avesse festeggiato con il tuffo al Fontanone sarebbe diventato un candidato per la Roma?

«Il tuffo al Fontanone non lo considero un ge­sto irriverente o irriguardoso, era un modo di festeggiare una vittoria disperata, perché la Lazio era in brutte acque. Non vedo reati in quel tuffo liberatorio. Ma Rossi non poteva essere l’allenatore della Roma a prescindere dal tuffo. Cercavamo un altro profilo di alle­natore. Volevamo un giovane che prendesse i rischi e interpretasse un desiderio, un pen­siero della società. Siamo contenti di aver preso Luis Enrique. Considero Rossi uno dei migliori allenatori italiani e nel panorama eu­ropeo. Se gli dai una squadra da 50 punti ne fa 51, se gli dai una squadra da 60 punti ne fa 62. Non tradisce mai le attese».

Da quanto tempo non sente Lotito?

«Non lo sento da tanto. Credo sia arrabbiato con me. Per colpa mia. Abbiamo avuto una discussione l’anno scorso, i rapporti di sono raffreddati, nonostante abbia affetto per lui e continui a pensare che sia il presidente delle cose difficili. Aggiungerei per fortuna della Lazio: aveva bisogno di un presidente che sa­pesse affrontare le cose difficili».

Lotito deve diventare un presidente “più fa­cile”?

«Deve imparare a gestire le cose facili un po’ più di quanto stia facendo. Penso debba con­segnare la squadra alla gente. Le squadre non sono dei presidenti, ma di chi gli vuole bene».

A Trigoria le fanno pesare la sua ex lazialità?

«No, mai. Forse perché fanno prevalere il fat­to di essere stato un ex ala tornante della Ro­ma ».

[...]

DiBenedetto sta tendendo la mano a Lotito per l’Olimpico. Pensa sia possibile una colla­borazione tra le due società?

«Questo non lo so. Con sicurezza, DiBenedet­to si è messo in posizione di ascolto, interlo­cutore di tutti per capire la realtà che lo cir­conda. Poi procederà lui stesso a una selezio­ne successiva rispetto a quanto avrà sentito e valutato».

La sua conferenza-stampa su non è sta­ta da tutti capita. Ha avuto ragione lei? E’ stato bravo Francesco oppure Luis Enrique a farlo giocare?

«Sono stati bravi e Luis Enrique».

Che sensazioni ha pensando al derby?

«Ho rinviato qualsiasi ragionamento, comin­cerò a ridosso della partita, pensarci da oggi mi porterebbe in fin di vita prima del fischio di inizio».

Come finirà?

«So solo che finirà. Ma venerdì prossimo di­rò che vince la Roma».