La penna degli Altri 23/08/2011 14:50

Totti, la nuova Roma e la strana guerra contro il resto del mondo

È estremamente interessante e altrettanto simbolico del nostro Paese quello che sta accadendo intorno a . Cosa succederebbe se Berlusconi dicesse «La rifondazione del Milan ripartirà da Gattuso» o se Moratti provasse a tranquillizzare i tifosi interisti promettendo che «la nuova Inter ripartirà da Zanetti»? Eppure, sembra che alla Roma (e per la verità anche alla con Del Piero), provare a fare un ragionamento di prospettiva, da cui non può che essere escluso, equivalga a una bestemmia.

Sul Corriere della Sera del 21 agosto, Mario Sconcerti ha spiegato benissimo (come fece anche in suo libro di qualche anno fa che proprio così s'intitolava) la differenza di . Una delle quali è una sua particolare forma di romanità, che rende così difficile capire er al di fuori della capitale. Il problema è che nel momento in cui la Roma entra (o prova a entrare) in una dimensione globalizzata di calcio, la prospettiva deve per forza di cose essere invertita. In altre parole: se tutto il mondo tranne Roma non ti capisce, il problema sei tu o tutto il mondo?

 

(Epa/Kollanyi) La romanità di è alla base anche di un altro non piccolo equivoco su . Per molti l'assenza del capitano della Roma dalle gerarchie dei grandi della storia del calcio mondiale si spiega col suo rifiuto di lasciare la Capitale per andare in un grande club straniero, scelta che gli ha impedito di accrescere la sua notorietà internazionale. Vero o falso che sia, è curioso notare che questo è proprio ciò che si imputa a Pelé nella disputa su chi tra lui e Maradona sia il più grande di sempre. Per i suoi sostenitori (e non a torto), Maradona è uscito dall'Argentina e si è misurato col calcio europeo, mentre O Rei no. Il che non impedisce all'altra metà del mondo di considerarlo il miglior calciatore della storia, pur avendo giocato sempre e soltanto nel Santos, cittadina dello stato di San Paolo, il medesimo in cui Edson Arantes do Nascimiento era nato.



Per i romanisti, è in qualche modo paragonabile a Pelé: è il romano che ha scelto di restare in giallorosso per fare grande il club della sua à - e c'è riuscito. Da questo (o meglio, anche da questo) discende il - sacrosanto - rispetto che si richiede per la parte finale della carriera (straordinaria, come dimostrano i numeri) del . Ma quello che forse bisogna chiedersi non è cosa intendiamo noi per rispetto, ma cosa intende lui. L'impressione è che per (e i suoi sostenitori) qualsiasi cosa diversa da una maglia da titolare senza discussioni e per ogni partita sia avvertita come un'imperdonabile mancanza di rispetto. Figurarsi ritenere che possa entrare solo al 71' di una partita di Europa League. La qual cosa, invece, è una scelta, giusta o sbagliata però legittima, dell'allenatore. È molto probabile che il destino di Luis Enrique sulla panchina della Roma (e quindi di tutto il progetto di DiBenedetto) dipenda da un chiarimento soprattutto su questo.