La penna degli Altri 14/05/2011 12:22

Cessione As Roma, Mezzaroma: «Nel 2009 volevo comprare il club. Non mi si è filato nessuno...»



Calcio, volley, vela, costruzioni: qual è l’attivi­tà che le porta via più tempo e le dà più sod­disfazione?

«All’Università insegneranno una nuova mate­ria: l’organizzazione dell’agenda di un folle. La mia segretaria ha il compito più importante, per­ché riuscire a incastrare tutti gli impegni non è facile. Ma debbo ringraziare anche mia moglie e la mia famiglia per la pazienza. Quella che mi dà più soddisfazione personale è la vela, pratica che porto avanti con qualche buon risultato an­che a livello internazionale. E’ bello riuscire a to­gliersi giacca e cravatta e andare in giro per il mondo senza rumore ad ascoltare il vento e le battute degli amici nei momenti tosti di una re­gata. Essere, poi, il presidente di una società di calcio è un lavoro vero, se si vuole essere dei vincenti. Perché il calcio è un’azienda con tanti collaboratori e tanti dipendenti, tanti meccani­smi che diventano un’attività reale perché sen­za tutto ciò i risultati non vengono. La soddisfa­zione umana arriva dal volley, vedere tanti ra­gazzini del settore giovanile, a volte di un metro e ottantacinque, crescere è una cosa che fa pia­cere. Abbiamo riportato a Roma scudetti. Ed è stato bello».

Come mai un imprenditore romano, che avrebbe potuto avere per destino mezza Roma in Serie A, è dovuto andare a Siena a fare calcio e a Roma arrivano, invece, gli americani?

«Innanzi tutto, nemo profeta in patria, senza voler prendere pieghe latiniste, c’è già chi lo fa. Poi ricordo benissimo quei giorni, prima che pa­pà Pietro comprasse la società con la gente sot­to casa che implorava affinché il club non fallis­se. Per un romano essere presidente della Roma è complicato. Il grande amore, a volte, fa venir meno quel pragmatismo indispensabile quando un’azienda sportiva arriva a fatturare 100 milio­ni di euro. C’è, purtroppo, uno squilibrio fra un approccio sentimentale e i numeri che il calcio produce, le professionalità necessarie e gli appe­titi che genera. A Roma è molto complicato per un romano. Siena, in questo senso, è una à diversa. Ci sono regole antiche non rintracciabi­li altrove. Il clima è quello di una volta. I tifosi so­no ancora avversari, non nemici».

Ma il fatto che arrivino gli americani a Roma come lo valuta?



«Aspetto di vederli all’opera. DiBenedetto che scende dall’aereo dà l’immagine di un uomo che viene per lavorare. Sono curioso di verificare co­sa porteranno di nuovo nel mondo del calcio. Mia madre è inglese, conosco la cultura anglo­sassone ».

In questo periodo si è parlato tanto delle dif­ficoltà della Roma, c’è stato un momento in cui ha pensato di prendere la società?



«Sì, prima di acquistare il Siena. Nell’autunno del 2009. Trovavo strano che in una à come Roma, che è quella dei costruttori da duemila anni, di fronte ad una volontà forte della politi­ca di creare un mix forte tra infrastrutture e sport, nessuno rispondesse. Avremmo investito sino a stabilizzare la società e a risanarla in cam­bio della possibilità di fare urbanistica anche at­traverso uno stadio moderno. Non mi si è filato nessuno».

In un anno e mezzo di calcio ha fatto tutto: una retrocessione e una promozione. C’è un mo­dello tra i giovani presidenti che seguirebbe?

«Insomma, posso anche smettere! Ci sono tan­ti giovani presidenti non ancora quarantenni molto bravi. Per me Viola resta un esempio, una figura unica. Pensate alle polemiche con Boni­perti e paragonatele alle liti Lotito-Galliani di oggi. Non c’è partita, anche se questa è un’altra Italia e un altro calcio. Nessuno vuole lasciare più un segno. Abbiamo perso il gusto di fare. Mio padre faceva il falegname e mi ha sempre inse­gnato a tenere la testa su quello che sto facendo. Nessuno combatte più per rimanere nella sto­ria, neppure in quella del proprio quartiere».