La penna degli Altri 06/04/2010 09:30

Tre grandi centravanti per tre indimenticabili Scudetti

Amedeo Amadei nasce a Frascati il 26 luglio 1921 e assiste alla sua prima partita di pallone all’età di nove anni, quando un vicino di casa, Germano Calderini, lo accompagna all’oratorio salesiano di Capocroce. Si tratta di un colpo di fulmine, il ragazzo entra nelle file dei pulcini dell’Opera Nazionale Dopolavoro Frascati, dove rimase fino all’estate del 1935 quando sostenne e superò (sotto la supervisione di Mister Scardola) un provino per entrare a far parte delle giovanili dell’AS Roma. Il debutto in prima squadra in amichevole arrivò l’11 aprile 1937 a Cagliari (U.S. Cagliari-Roma 2-3), mentre quello in una gara ufficiale avvenne il 2 maggio dello stesso anno, nel corso di Roma- . Il ragazzo aveva 15 anni 9 mesi e 13 giorni, un record assoluto che rimane tuttora imbattuto. Nella parte iniziale della carriera, essendo dotato di una velocità assolutamente fuori dal comune, viene sfruttato nel ruolo di ala, prima nella Roma e quindi nell’Atalanta, dove trascorrerà una stagione in prestito nel 1938/39, nella serie cadetta. In nerazzurro disputa una stagione con i fiocchi, 33 presenze e 4 reti per un secondo posto finale A a parimerito con il Venezia che sarà promosso in serie A per la migliore differenza reti (1,69 contro 1,65). Una volta rientrato alla base, sarà Alfred Schaffer, leggendario tecnico giallo-roso, ad inventarlo centravanti, varando quella formula che puntava molto sulla velocità del duo Amadei, Krieziu, che porterà allo scudetto nella stagione 1941/42. La storia ha consacrato Amadei come uno degli attaccanti più forti di ogni tempo. Il suo score in serie A (comprese le apparizioni con Inter e ) parla di 454 presenze e 217 reti, il suo bottino in gare ufficiali (club e Nazionale) è invece di 547 gare e 274 reti. Come allenatore Amadei ha vinto il prestigioso “Seminatore d’oro” alla guida del .

1982-83, PRUZZO Di Bomber ce ne è uno solo. Lode a te grande Roberto

I romanisti con più di 30 anni hanno una grande fortuna. Possono dire di aver visto la Roma del secondo scudetto, quella di Liedholm, Falcao, Agostino e Conti. Quella di Roberto Pruzzo, probabilmente il più grande centravanti della storia della Roma. Uno che se non ci fosse stato (ma per fortuna c’è) sarebbe ancora il più grande marcatore giallorosso di sempre. E se ancora oggi alla parola “bomber” si pensa a lui, un motivo ci sarà. Perché per 10 anni Pruzzo è stato sinonimo di gol. Belli, brutti, importanti, dolorosi, alla fine in giallorosso furono 106. Chi li ha vissuti se li ricorda praticamente tutti, perché ogni volta era un’emozione speciale. Nonostante il suo carattere chiuso, riusciva a trascinare la gente con quel pugno alzato ad esultare. Sempre gesti veri, mai costruiti, spontanei. Come quella maglia tolta e sventolata sotto la curva per festeggiare un gol alla . Dopo di lui l’hanno fatto in tanti, ma non è mai più stata la stessa cosa. E poi tornano in mente altri frammenti di gioia: la rovesciata a Torino con Tacconi che per provare ad arrivare lì dove era impossibile arrivare si ruppe due dita sul palo, il gol al Liverpool che avrebbe potuto cambiare la nostra storia e non lo ha fatto solo per quel problema intestinale che lo lasciò negli spogliatoi dopo un tempo. E poi la cinquina all’Avellino nell’86, che non bastò per farci vincere un altro scudetto (maledetto Lecce), ma gli consentì di diventare per la terza volta capocannoniere della Serie A (le altre due nell’81 e nell’82). Non gli furono sufficienti per prendersi la maglia numero 9 della Nazionale che vinse il Mundial. Un’ingiustizia che anni dopo ci inorgoglisce un po’. Perché anche se, ironia del destino, ha segnato contro di noi il suo primo gol in A (col ) e l’ultimo (con la ), il bomber è solo nostro. E di nessun altro.

 

2000-2001, BATISTUTA Vincemmo il tricolore nel giorno in cui arrivò

Lo scudetto del 2001 fu merito di tanti. Di , di Montella, di Cafu, di Tommasi, e di tutti gli altri. Ma forse Roma e la Roma cominciarono a credere veramente al tricolore nel giorno in cui arrivò nella Capitale Gabriel Omar Batistuta. Perché Batigol non era solo il centravanti che aveva segnato 168 gol con la , era di più. Era il segno che non ce ne era per nessuno. Il presidente Sensi pur di averlo spese 70 miliardi. Una fortuna per un giocatore di 31 anni. Ma Bati li valeva tutti. Perché portò la cattiveria necessaria per centrare un traguardo del genere. Una voglia senza eguali la sua che si tradusse in un girone d’andata da far venire i brividi. Alla prima giornata col ci provò in tutti i modi a toccare con la punta un pallone deviato che si stava infilando in porta per il 2-0. Non ci arrivò per una questione di millimetri. Ma dalla settimana successiva a Lecce fu uno spettacolo assoluto: 8 gol in sei giornate, fino alla partita con la . La sfida col suo passato, coi sentimenti. Spazzati via da un bolide sotto la traversa in no- me dell’obiettivo finale: lo scudetto. Dopo un girone d’andata disumano rallentò, per poi tornare decisivo nelle partite che contavano di più. Come il derby di ritorno quando fece esplodere sotto la Sud la mitraglia che i romanisti aspettavano da non si sa quando. Alla fine di quella stagione i suoi gol saranno 20. Il 17 giugno fu il suo sinistro rabbioso a chiudere i giochi e a far iniziare la festa. Il suo sogno, il nostro sogno, era realizzato. Restò fino al 2003 segnando altri 10 gol in campionato e andandosene all’Inter non proprio da trionfatore. Ma quei giorni poco felici si dimenticano, i suoi capelli al vento e lo scudetto no