La penna degli Altri 15/04/2010 10:12

Rivalità storica e sfottò: ecco la partita specchio della città



La Camera dei Lordi (sic! del resto anche Volk dovette tradurre il fiumano cognome nell’autarchico Folchi) votava contro il governo laburista; al cinema Nazionale spopolava “Il cantante di jazz”, film parlante recitava la locandina.



Cominciava una storia: la storia del derby della Capitale. Quella che domenica vivrà l’ennesimo capitolo.

Il derby ha le sue tragedie (terribile, indimenticabile, quella di Vincenzo Paparelli colpito a morte da un razzo sparato dalla Sud giallorossa verso la Nord biancoceleste) e le sue farse (quel match sospeso e rinviato per la falsa notizia di una morte). Ha, secondo il cuore di ciascuno, il suo buon ricordo: per restare ai recenti, i quattro gol di Montella, aeroplanino giallorosso, o quello di Di Canio, coraggioso biancoceleste capace di esultare a modo suo proprio sotto la Sud, o quello di Behrami, o la corsa di Carletto Mazzone sotto la curva, o l’uno-due di Nedved e Castroman, il tuffo di Delio Rossi nel fontanone del Gianicolo (acqua condita, ironizzarono i tifosi della Roma: ma l’indagine dei Ris non fu mai invocata a caccia del dna), o il “vi ho purgato ancora” di , che è quello che ha giocato più derby (plurale corretto: derbies, ma non usa) e ne ha contemporaneamente vinti e perduti di più.




Ma questo è il “campo”: il derby è altrove. E forse ha ragione Zeman che prima lo definì “una partita qualunque” (e molti ne perse, vestito di giallorosso) e ora dice che è speciale nel tifo e che il biglietto non lo dovrebbero pagare gli spettatori, ma i giocatori che si godono lo spettacolo delle gradinate che ormai sono file di seggiolini, da non divellere).



Il derby, da quel giorno dell’Immacolata del 1929 è ogni giorno in à, andata e ritorno, che conti per lo scudetto o per la salvezza, che per la classifica non conti niente. E’ negli uffici e nei posti di lavoro, è in famiglia e al bar: uno sguardo più malandrino del solito, un’ironia più sorridente e irridente del solito. E’ l’idea che tutti trasforma, laziali e romanisti, romanisti e laziali, in tanti Alberto Sordi (che era romanista), mentre c’è chi ricorda “quella volta in cui...”.



Già, ma quale volta? Quella di Giorgio Vaccaro, futuro dirigente sportivo, laziale come tanti dirigenti, che da bordo campo allontanò un pallone a perder tempo, come Lapo Elkan a una partita di basket o un qualunque raccattapalle della domenica; quella di Giorgio Chinaglia che, dicono, bruciò le maglie d’una sconfitta; quella del “non famo scherzi” d’un andreottiano messaggio; quella di Selmonson, che si può scegliere romanista e laziale giacché indossò entrambe le maglie e con tutte e due segnò nel derby. «Me ne sono andato da Roma prima che la caciara di romanisti e laziali mi intronasse» avrebbe confessato una volta (ne sanno qualcosa Paolo Negro e il suo autogol). Ma non è una caciara che introna quella del derby: è vita.