La penna degli Altri 22/04/2010 10:49

Menotti, l’Argentina Maradona, i generali e una cyclette

Capelli lunghi, lo sguardo intelligente, proprio "el Flaco", come lo hanno soprannominato: il Magro. Cèsar Luis Menotti mi dice "hola!", e si mette a pedare al mio fianco, con un’andatura lenta, studiata, sembra Andrade quando giocava. Mi presento, cominciamo a parlare (io, in verità, rallento: il fiato comincia ad abbandonarmi). Gli dico di essere un suo estimatore, da sempre. Da quando, al mundial argentino del 1978, quello dei dittatori, dei desaparecidos, delle nonne e delle madri di "Plaza de Mayo", quello vinto dalla Selecciòn grazie alla partita truffa con il Perù prima del successo a Buenos Aires, nella finale per 3-1, contro l’Olanda, si rifiutò, lui l’allenatore, alla pari del goleador Mario Kempes, di stringere la mano al generale Videla e agli altri militari in tribuna d’onore. Di più: pochi minuti prima della sfida con gli olandesi, urlò ai suoi giocatori nello spogliatoio: «Dobbiamo vincere per la nostra gente che soffre, non per i generali e per i loro complici».

El Flaco si aggiusta i capelli («Ma davvero non si può fumare qui dentro?»). Ferma la pedalata: «Erano tempi duri. Quella Coppa rappresentò una vetrina per la dittatura. Sapevamo e non sapevamo. Ma certe cose giungevano anche noi. Adesso, tutto è chiaro. Chi ha sbagliato sta cominciando a pagare». Menotti rischiò di non guidare la nazionale biancoceleste: primo, per le sue idee di sinistra; secondo, per non aver convocato il fenomeno nascente, Diego Armando Maradona, il 10 spettacolo dell’Argentinos Juniors. Sorride, con furbizia. Sembra un personaggio di Borges, uno del quartiere Palermo: «Sono sempre stato un progressista, uno che guardava al bene collettivo, a una parità sociale. Pur partendo dalla mia condizione di privilegiato. Buon giocatore, buon allenatore, buoni stipendi. Ma guai, nella vita, a perdere di vista gli altri. No, non piacevo a tanti: ma come potevano rinunciare a uno come me?». Su Dieguito la solita solfa: «Ancora inesperto, da non bruciare in una manifestazione così importante, caso mai confinandolo in panchina». Il Pibe pianse, con rabbia e amarezza: si sarebbe rifatto nel 1986 in Messico, tra colpi di mano e gol impossibili. Gli dico che fu uno scrittore, uno "scrittore fosforico", a segnalare, per primo, Dieguito in Italia: Osvaldo Soriano, l’autore di "Triste solitario y final" e di tanti memorabili racconti sul pallone.

Scrisse una lettera a Giovanni Arpino: «Per il Torino servirebbe un ragazzino, che qui sta compiendo meraviglie, Diego Armando Maradona. Segna, almeno, due gol a partita. Occhio, però: si sta già interessando ai suoi capolavori il ». Ora, provate a immaginare, soltanto per un attimo, il Pibe con la maglia granata! Che derby con Platini! Menotti, quel giorno in palestra, sorvola su Diego: in fondo, sono uno dei tanti a ricordargli quella "svista", invece di rimettermi a pedalare con buona lena. E’ in Ecuador per guastarsi il "buon futbol", allena il Boca ed è, nuovamente, all’apice della gloria. Mi confida di voler provare un’esperienza italiana: «Da voi si gioca un campionato strepitoso, emozionante. Da voi sono arrivati Diego, Michel, Paulo Roberto Falçao, l’intelligenza del pallone racchiusa in una persona, senza contare i ragazzi che trionfarono in Spagna... Chissà, forse, tra qualche anno...». (In effetti, il Magro arrivò in Italia, nel 1997: cacciato dopo otto giornate. Fine di un’illusione, di un sogno. Se ne tornò in Argentina, all’Independiente). Menotti scende dalla cyclette, si riaggiusta la chioma fluente: «Dopo la fatica, ci vuole una sigaretta. Che ne dici?». «Ho smesso di fumare- gli rispondo - nell’88». Mi mette una mano sulla spalla: «Chi vincerà la Coppa America?». «Il Brasile, il mio Brasile, senza dubbio» replico. «No - mi risponde lasciandomi solo nella palestra ai miei problemi di peso- vincerà l’Argentina».