La penna degli Altri 30/04/2010 13:59

La Coppa dell'addio di Agostino

per qualcosa che poteva essere ma non è stato, ma che vanno comunque ricordati con la giusta dose di felicità. Anche se appena macchiata dall’amarezza. In questa seconda categoria di successi rientra la Coppa Italia sollevata molto a malincuore da capitan Di Bartolomei la sera del 26 giugno del 1984. Non che

quel successo fosse snobbato dalla squadra e da Agostino, per carità, ma un po’ offuscato da pensieri negativi questo sì. E il primo di essi, ovviamente, era quello che un mese prima, sempre all’Olimpico, al posto di quella coppa se ne sarebbe potuta sollevare un’altra, ben più importante: quella dei Campioni, malamente persa ai rigori contro il Liverpool, che da allora non ci è stato più tanto simpatico.



Poi c’era la consapevolezza che quella finale con il Verona coincideva con l’ultima partita in giallorosso di

Liedholm e dello stesso Agostino, che ci avrebbe salutato dopo una vita passata a difendere ovunque i colori di Roma e della sua Roma. Lui che era cresciuto a Tor Marancia e aveva dato i primi calcio all’oratorio della Chiesoletta, alla Garbatella. Lui che pian piano si era fatto largo nel calcio che conta a suon di punizioni

e determinazione fino a diventare il primo capitano giallorosso e romano capace di vincere lo scudetto. Nel

1942, infatti, il ruolo era del veronese Masetti, che poi divenne romano d’adozione. Fino a quella gara col Verona, insomma, per Agostino c’era stata solo la Roma. A partire da quella sera noi e lui sapevamo

che la sua storia in giallorosso si sarebbe chiusa del tutto per portarlo lontano dalla sua à, dal suo stadio


Olimpico (dove appena un anno prima aveva celebrato la realizzazione del sogno di ogni bambino romanista con il giro di campo dello scudetto) e da noi, che eravamo i suoi tifosi. Quelli in mezzo ai quali era cresciuto e che lo avevano imparato ad apprezzare e ad osannare come un vero capitano. Il leader non solo della squadra ma di un’intera generazione di noi, per i quali è ancora oggi "il capitano". E ci scuserà, perché

sa di cosa parliamo. Ecco perché nel momento in cui sollevò al cielo quella Coppa Italia Agostino era più cupo del solito e noi con lui, nonostante fosse stata conquistata con l’orgoglio di chi sa di essere il più forte di tutti e allo stesso tempo la consapevolezza di essere stato fermato sul più bello solo dalla sfortuna.

Una coppa vinta anche contro ogni pronostico, poiché una volta persa la finale con gli inglesi nessuno pensava che la Roma sarebbe stata in grado di aggiudicarsela, tanto forte era stata la mazzata che aveva dovuto sopportare. Inoltre nei quarti ad attenderla c’era il Milan, che non era ancora quello stratosferico

che verrà costruito in seguito da Berlusconi, ma che era pur sempre una squadra difficile da affrontare. E

qui, prima di procedere nel racconto, dobbiamo per forza fare un salto indietro nella manifestazione, perché Roma e Milan si erano già affrontate nel primo turno di quel torneo, che le mise di fronte alla quinta gara di un gruppo di qualificazione in cui, oltre a loro, c’erano anche il Rimini (che la Roma sconfisse 3-1 in Romagna nella gara di esordio con la doppietta di Vincenzi e il gol di Pruzzo), l’Arezzo (battuto in Toscana per 1-0 ancora grazie a Vincenzi), l’Atalanta (2-0 a Roma con reti di Pruzzo Strukelj) e il Padova (4-2 sempre nella

Capitale con doppietta di Cerezo e gol di Maldera e Graziani). Quel Milan-Roma, dunque, si giocò il 4 settembre dell’83 e finì 1-1 con le reti del solito Vincenzi (protagonista di un grande avvio di stagione) e di Battistini. Le due squadre passarono a braccetto il turno e, come scritto, si ritrovarono nei quarti, dopo

che la Roma aveva superato gli ottavi eliminando la Reggiana con una doppia vittoria: 2-0 all’Olimpico l’8-2-1984 con reti sempre di Vincenzi e Graziani e 1-0 in Emilia il 22 dello stesso mese con gol di Cerezo. Quella doppia sfida col Milan nei quarti, dunque, fu la replica delle tre già andate in onda nel corso della stagione

e nelle quali la Roma non aveva mai perso. Cosa che, al di là dei pronostici negativi succitati, faceva comunque ben sperare noi giallorossi sull’esito della qualificazione.

All’1-1 in Coppa che vi abbiamo raccontato, infatti, erano seguiti il 3-1 dell’Olimpico a favore dei giallorossi della terza giornata, con Vincenzi (toh, ancora lui), Maldera e Falçao che replicarono al gol iniziale di Battistini e l’1-1 di S.Siro del 29 gennaio ’84 firmato dalle reti di Verza e Pruzzo. La differenza con quelle partite consisteva nel fatto che stavolta si sapeva già che nella stagione successiva al Milan sarebbe tornato Liedholm, che la Roma aveva già provveduto a sostituire con Sven Goran Eriksson, per assumere il quale Viola si accingeva a dar vita ad un vero e proprio braccio di ferro con la Lega. A quel tempo, infatti, non era possibile ingaggiare tecnici stranieri, ma la battaglia dell’Ingegnere (in essa unito a Rozzi, presidente dell’Ascoli, che voleva Vujadin Boskov) portò al cambiamento della regola, anche se i due mister vennero assunti con la qualifica di Direttore Tecnico. Burocrazie tipiche della nostra Italia. Ma torniamo a quella coppa. Dopo la delusione della finale col Liverpool, dicevamo, nessuno pensava che la Roma avrebbe avuto interesse per la Coppa Italia, che nelle ultime stagioni l’aveva vista trionfare quasi sempre. E invece accadde l’esatto contrario, forse e soprattutto per merito dei tifosi, che solo otto giorni dopo il Liverpool riempirono l’Olimpico per l’andata dei quarti di finale col Milan. Tra loro si confuse lo stesso Eriksson, arrivato a Roma per visionare dal vivo la sua nuova squadra e che poi confesserà di essere rimasto sbalordito dal calore dei romanisti. Di fronte agli ottantamila dell’Olimpico i giocatori giallorossi capirono che l’impegno non andava snobbato e tirarono fuori il massimo che potevano dare in quel momento. 

Fu così che riuscirono a rimontare lo svantaggio determinato dall’autorete di Nappi, con l’1-1 che arrivò proprio da quel maledetto dischetto che era costato la coppa più importante. A trasformare il rigore, ovviamente, ci pensò Agostino, che dagli undici metri aveva segnato anche agli inglesi. L’1-1 casalingo della gara di andata sembrò avvantaggiare il Milan, ma la Roma ormai era di nuovo in ballo ed ebbe la forza di ribaltarlo appena tre giorni dopo andando a vincere a S.Siro per 2-1 ai supplementari grazie ad una doppietta di Cerezo. In

semifinale ad attenderla c’era il Torino, suo avversario storico di questa manifestazione negli Anni 80 e non solo. La Roma lo sconfisse anche stavolta vincendo 3-1 all’andata in Piemonte con un gol di Conti e un’insolita doppietta dell’italoinglese Strukelj e 1-0 all’Olimpico con una rete ancora di Brunetto nostro. Nella

doppia finale di fine giugno, poi, trovò il Verona di Bagnoli, una quadra in ascesa che l’anno dopo avrebbe addirittura vinto lo scudetto. La Roma in quel momento doveva prendersi la sua rivincita sul mondo e

non conosceva rivali in grado di fermarla, tanto era l’orgoglio di chiudere comunque la stagione con un trofeo da mettere in bacheca, anche se diverso da quello sognato. Insomma, la Coppa Italia non doveva sfuggire, esattamente come non deve sfuggire quest’anno alla squadra di Ranieri. E non sfuggì, con Cerezo (sempre lui) che sbloccò lo 0-0 a Verona nella finale di andata (poi Storgato fece l’1-1) e un’autorete di Ferroni

che sancì la vittoria in quella di ritorno, al termine della quale "Ago" sollevò la coppa al cielo quasi con una smorfia. La stessa che solcò il viso di tutti noi che stavamo in tribuna. Pochi giorni dopo Di Bartolomei finì al Milan insieme a Liedholm, che lo volle portare con se in rossonero perché a lui lo legava una stima

infinita.

«Agostino era un ragazzo eccezionale ed un ottimo giocatore, tanto che non soffrì molto il fatto di essere impiegato da difensore centrale accanto a Vierchowod, anziché nel suo abituale ruolo di centrocampista - ci disse un giorno di qualche tempo fa lo stesso Liedholm - Decisi di metterlo in quella posizione perché avendo già FalcaoProhaska e , a centrocampo ero più che coperto. Ma Agostino era talmente bravo che non potevo certo toglierlo di squadra e così pensai al modo migliore per sfruttare la sua precisione di calcio e la sua ottima visione di gioco, qualità che partendo da dietro poteva usare al meglio. Agostino era un professionista esemplare, un vero capitano, in campo e fuori. Il suo carisma era indiscutibile.

Gli volevo molto bene e lo apprezzavo molto, per questo nel 1984 lo portai con me al Milan»
. Prima di andarsene insieme a Milano lasciarono alla Roma quel trofeo che da tutti, ancora oggi, è ricordato come "la Coppa Italia dell’addio di Agostino".