La penna degli Altri 27/04/2010 11:38

Al cielo con Losi. E per Taccola

La scelta appariva ancora più difficile da comprendere, visto che a gennaio del 1964, il disavanzo delle casse sociali era balzato a 1.850.000.000 lire (tanto che a dicembre si sarebbe arrivati alla sconcertante vicenda della colletta del Sistina). Sia come sia, la Roma voltava pagina affidandosi a Juan Lorenzo, personaggio istrionico, ossessionato da scaramanzie di ogni sorta, ma anche capace di motivare la propria squadra. Il 6 settembre, dunque, come da programma, Roma e Torino scesero in campo per disputare la finale. La Roma, in maglia completamente bianca, sperava di regalare il successo al pubblico dell’Olimpico, ma la gara, estremamente combattuta sul piano fisico e nervoso, terminò sullo 0-0. Il regolamento, a questo punto, prevedeva la ripetizione della gara, sempre nella capitale, ma le due società (si disse in cambio della concessione da parte del Torino di una quota più sostanziosa dell’ incasso), si accordarono per trasferire in Piemonte l’ultimo atto della sfida. A tenere alta la fiducia dell’ambiente giallorosso pensa comunque Lorenzo che è convinto che giocare in trasferta non possa che favorire il gioco della sua Roma. Intanto, la squadra è impegnata ad onorare il proprio impegno nella Coppa delle Fiere e il 28 ottobre gioca a Zagabria. Lorenzo, alla presa con uno dei suoi tanti demoni rifiuta di viaggiare in aereo, ma per eccesso d’ironia della sorte viene coinvolto in un incidente automobilistico, mentre cerca di raggiungere Zagabria in taxi. I due tesserati della Roma usciranno illesi dalla drammatica esperienza, meno bene andranno le cose per il conducente del taxi, che verrà trasportato in ospedale in fin di vita. Lorenzo, indistruttibile, riesce comunque ad assistere alla gara, che si conclude con un pareggio firmato dal gol di Nicolé. Lorenzo inizia a perdersi nei suoi consueti calcoli cabalistici e non può fare a meno di notare che l’ex giocatore della aveva segnato il 28 ottobre, all’8 minuto, dormendo alla vigilia della gara nella camera d’albergo numero 338. Per il tecnico, il particolare interessante della vicenda era che il suo numero portafortuna era proprio l’8. Da questo momento, sino al 30 ottobre, vigilia della finale di Coppa Italia, Lorenzo, novello Amleto, iniziò ad interrogarsi sulla formazione da schierare. Attendersi a quelli che erano i piani di massima della vigilia di schierare Tamborini o puntare tutto sulla roulette della dea bendata attendendo l’uscita del numero 8 ? La sera di quel 30 ottobre, la squadra venne accompagnata al cinema.

Sembra quasi di vederlo, Lorenzo, avvolto nella penombra della sala rimuginando sui suoi pensieri: «Francamente me ne infischio», avrebbe sentenziato il Red Buttler di Gone with the wind, e anche Juan Carlos getta al vento i suoi dubbi e gioca tutte le fiches della Roma sul numero 8 .... Nicolè centravanti. Dopo 9’, la scelta sembra rivelarsi un disastro. Nicolè ha già sciupato due nitide occasioni da gol, Lorenzo sembra Napoleone a Waterloo e il Torino prende in mano le redini della gara. I granata, però, non riescono a violare la rete difesa da Cudicini e a cinque minuti dalla fine il pallone termina tra i piedi di Giancarlo De Sisti. Picchio si lancia in uno slalom tra i difensori avversari, poi, poco prima di cadere serve Nicolé. Sul giallorosso sta rinvenendo come un forsennato Lancioni, e la punta romanista, forse temendo di non riuscire neanche a calciare, si libera della palla calciando di punta. Il tiro trafigge Vieri e consegna la Roma alla vittoria. Pochi minuti più tardi Losi, mentre alza al cielo la coppa chiamerà a sé il giovane De Sisti, vuole che il suo volto venga immortalato assieme a lui, perché per “Giacomino” è lui il futuro del club. Quando però, nella stagione 1968/69, la Roma tornerà ad affacciarsi alla finale di Coppa, nessuno dei protagonisti di quella splendida istantanea era ancora in forza alla prima squadra. De Sisti era stato sacrificato da anni sull’altare della ragion di stato del bilancio, mentre Losi era stato frettolosamente liquidato (proprio all’inizio di quella stagione), dal Mago Helenio Herrera. Oltre alla rinuncia a Losi, la stagione 68/69 era stata per sempre funestata anche dalla morte di Giuliano Taccola, spirato all’età di 25 anni negli spogliatoi dello stadio Amsicora di Cagliari il 16 marzo 1969. Proprio in quella maledetta giornata era sorto un dissidio insanabile tra alcuni elementi della squadra (D’Amato su tutti, a cui si unì Franco Cordova e Sirena) che non volevano abbandonare Cagliari e il tecnico.

Herrera aveva insistito per raggiungere immediatamente Fregene e preparare una sfida di Coppa Italia. La squadra era sotto shock e quando Ginulfi era finalmente riuscito a rintracciare il presidente Marchini per spiegargli la situazione, il massimo dirigente giallorosso era rimasto senza parole. Ginulfi piangeva, Marchini, furibondo, incaricò il Vice Presidente Dino Viola di comunicare ad Herrera l’ordine di liberare la squadra, ma neanche questo servì a convincere il Mago. Marchini a questo punto telefonò direttamente al suo tecnico: «Mandi tutti a casa. Subito!». Il 18 marzo, nella basilica di San Paolo, davanti ad una folla traboccante, si celebrarono gli struggenti funerali della punta giallorossa. Il giorno seguente una Roma svuotata di qualsiasi energia scendeva in campo a Brescia per disputare l’andata dei quarti di finale di Coppa Italia. La sconfitta per 1-0 fu la diretta conseguenza di una situazione che aveva colpito, devastandola, la serenità della squadra. Proprio quando la stagione sembrava avviarsi a concludersi nella maniera più mesta, però, il gruppo trovò al suo interno la forza di reagire, probabilmente proprio per onorare la memoria di Giuliano Taccola e incidere anche il suo nome tra i protagonisti di una vittoria destinata a rimanere negli annali della storia del calcio italiano. Nel match di ritorno, il Brescia verrà schiantato per 3-0. C’era però da fare i conti con lo strappo che si era creato col Mago e da questo punto di vista fu prezioso il lavoro di mediazione svolto da Joaquim Peirò, campione stimato e ben voluto da tutti gli atleti romanisti, ma anche l’uomo che “Abla Abla” aveva avuto nella sua grande Inter (proprio il passaggio dal Torino in nerazzurro, nel 1964, aveva negato allo spagnolo la possibilità di disputare la finale di Coppa Italia contro la Roma) e che una volta nella capitale aveva scelto come capitano.

Peirò è l’idolo dei tifosi, quando gli viene rubata l’automobile, un BMW, i tifosi mettono sotto sopra mezza Roma, ma alla fine la recuperano e la riconsegnano all’attaccante al termine di un allenamento al Tre Fontane. Era proprio Peirò che il 29 giugno 1969 avrebbe dovuto guidare la Roma nell’atto finale del girone che assegnava il trofeo. Contro il Foggia di Maestrelli alla Roma bastava un punto per fare sua, per la seconda volta la coccarda tricolore, in caso di vittoria del Foggia, sarebbe stata invece necessaria una gara di spareggio. Partendo verso la Puglia, Herrera aveva detto a Marchini di prepararsi a volare a Ginevra per i sorteggi di Coppa delle Coppe, ma a Foggia la Lupa trova un’atmosfera indemoniata. Ginulfi ed Herrera vengono colpiti dal lancio di oggetti (una scarpa raggiungerà il Mago che dichiarerà che quella piovutagli addosso non andava bene visto che lui calzava il numero 43). Sul campo, però, la fa da padrone Capello che firma una doppietta, mentre la terza segnatura sarà proprio di Peirò che con una parabola a rientrare manda la palla a sbattere sul palo interno e quindi in rete. Alla fine della gara, vinta per 3-1, la Roma dovette rinunciare anche al cerimoniale della consegna della Coppa, ma i giocatori esultarono comunque recandosi sotto al settore presidiato dai tifosi giallorossi. Nel 2007 il pallone del match di Foggia venne ammirato nel corso della mostra di Testaccio dedicata agli 80 anni della Roma.