La penna degli Altri 28/01/2010 10:30

Fuffo, Picchio, il Divino e il Pek, quando il regista fa la differenza


Gente di ingegno, dal cervello sopraffino abbinato a piedi da classe superiore. Molti di loro sono stati apprezzati fin da subito, altri hanno dovuto patire un po’ all’inizio per poi finire con l’essere compresi e riconosciuti come campioni. Altri, infine, hanno avuto la sfortuna di vivere momenti opachi che non hanno contribuito a farli comprendere dai tifosi capitolini, mentre altrove avevano ampiamente dimostrato di possedere le doti per guidare ogni grande squadra gli avessero messo a disposizione, Roma compresa. Il fatto è che in questa à non sempre si riconoscono subito i campioni. Così successe anche al grande Agostino, ad esempio, che quando cominciò a muovere i suoi passi in prima squadra dovette sentirsi spesso ripetere quell’odioso ritornello: "Sì, Di Bartolomei è bravo, ma è terribilmente lento". Quasi che giocare a pallone dovesse essere come correre i cento metri. Certo, le sue movenze erano più compassate che dinamiche, ma lui faceva correre la palla e questo Liedholm lo comprese subito, tant’è che da grande ex centrocampista qual’era ripeteva a tutti che nessun “jocatore” sarebbe mai riuscito a correre così veloce come il pallone. Sempre che questo fosse stato ben indirizzato, ovviamente. E a mandarlo dove doveva ci pensava lui, Agostino, capace di effettuare lanci di cinquanta metri al millimetro (ah, quanti gol al volo segnò Conti in questo modo) e aperture da sogno. Per averlo come regista arretrato il Barone lo inventò libero, piazzando a centrocampo altri due uomini di gran talento come il “Divino” Falçao e il concreto Prohaska. Un altro, quest’ultimo, che in quanto a lentezza ne aveva da vendere, tanto che molti lo soprannominarono “lumachina”, ma che se c’era da far correre il pallone o dare equilibrio alla squadra era tra i primi al mondo. Non a caso, quando Liedholm si trovò di fronte alla necessità di cederlo per far posto ad un altro campione del centrocampo come Toninho Cerezo, disse che lo lasciava partire molto a malincuore e solo perché stava arrivando un talento vero come il brasiliano. Ma se i regolamenti del tempo avessero consentito il tesseramento di più di due stranieri per squadra, statene certi, il Barone non si sarebbe mai privato di un Prohaska da piazzare accanto a Toninho, Agostino e Falçao. Già, Falçao, “il mio allenatore in campo”, come lo definiva Liedholm. Uno che da solo era capace di sistemare la squadra in un minuto, come accadde al 90’ di quel Roma-Avellino 3-2 in cui, subito dopo il pari degli irpini, prese il pallone in mano e cominciò a dire ai compagni cosa dovevano fare. Appena battuto il centro ecco il pallone a Maldera ed ecco il gol del 3-2. Magia? No. Classe, organizzazione e regia. Di Falçao, ovviamente. Il suo erede fu Giannini, “il principe”, he guidò le operazioni della Roma dalla metà degli anni 80 alla metà dei 90, divenendo anche il regista della Nazionale. Amato o sopportato, comunque mente di una squadra alla quale dettava i tempi del gioco, forte anche del fatto di essere cresciuto accanto a colleghi di grande levatura come lo stesso Falçao e
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Dopo di lui, da queste parti, passarono lo svedese Thern (forte, ma sfortunato e spesso fermato dagli infortuni) e Gigi Di Biagio, il faro del di Zeman. In precedenza, c’erano stati “Picchio” De Sisti e “Ciccio” Cordova, i due registi della bella Roma costruita da Liedholm alla metà degli anni 70. Intorno a loro il Barone aveva creato una squadra che girava a meraviglia, con Morini e Negrisolo che facevano “legna” e “Picchio” e “Ciccio” che inventavano le trame di quel gioco che sarebbe passato alla storia come “ragnatela”. Un titic titoc continuo con improvvise accelerazioni che spiazzavano l’avversario. In passato la Roma aveva conosciuto altri signori del centrocampo come Arcadio Venturi, un uomo d’ordine come pochi altri, nato mezzala e trasformato da Bernardini in mediano e come lo stesso Fulvio, che in campo era capace di fare ogni cosa e ricoprire ogni ruolo. Un vero leader insomma, tanto che chi l’ha visto giocare ci dice ancora oggi che è stato il più grande di tutti.