La penna degli Altri 31/12/2009 13:03

Dalla, i tetti, ecco Grazie Roma

stesso, fantastico, “palcoscenico”, a dar vita ad un nuovo, straordinario happening. Il concerto, sia per lo spessore del protagonista che per il suo rapporto “carnale” con Roma, può essere paragonato solamente alla grande esibizione del maestro Ennio Morricone tenuta a Piazza del Quirinale nella serata del 31 dicembre del 2004. Fatta questa premessa, da “vendittiano irriducibile”, non potevo che essere grato per questa opportunità, anche perché la gioia nel riabbracciare Antonello è stata stimolata in questi ultimi giorni dalla lettura del libro autobiografico L’importante è che tu sia infelice (Mondadori, settembre 2009). Un racconto utile per scoprire i retroscena della vita di un autore irripetibile e la storia delle sue canzoni, ma anche una preziosa occasione per conoscere il punto di vista del Venditti tifoso giallorosso.

Nell’imminenza del concerto dei Fori Imperiali ci è sembrato giusto omaggiare Venditti e i suoi tantissimi appassionati proponendo uno dei passi del suo libro che ricostruisce la genesi di Grazie Roma, brano con cui il cantautore romano chiuderà la sua performance: «Dopo la pubblicazione di Buona domenica, per oltre due anni, mi sono considerato in pensione. Ho peregrinato per l’Europa e ho abbandonato Roma. O viceversa. Mangiavo al Park Hotel di Figino Serenza, i cui gestori diventarono quanto di più simile a una famiglia, vivevo al Castello di Carimate e partecipavo a dischi di artisti che passavano di lì: feci i cori su Montecristo di Vecchioni, un intervento su Trasparenze del chitarrista Riccardo Zappa, suonai il pianoforte in Roma sparita di Luca Barbarossa. Ero completamente solo. Senza casa, senza moglie e per giunta in crisi economica, perché anche se dal disco avevo guadagnato, i soldi si erano volatilizzati fra il soggiorno in America, i missaggi, il tour. Dovevo ricostruire la mia vita partendo da fondamenta di buio. Stavo sui merli del castello e avevo giramenti di testa, strane tentazioni suicide. (…).

L’accelerazione per la risalita avvenne, banalmente, in autostrada All’altezza di affiancai una Jeep e mentre la sorpassavo mi accorsi che dentro c’era Lucio Dalla. Stava seduto sul portellone posteriore, abbassato come un ponte levatoio, e da lì osservava il panorama. Mi fece cenno di fermarmi. Sapeva bene

che stress fosse per me vivere da pellegrino, avanti, indietro, senza un posto dove appendere il cappello, e mi avvertì che a Roma aveva scattato la foto per il nuovo disco in una casa vicino alla sua, tra i vicoli di Trastevere, bellissima e in vendita. Disse: “Se fossi in te chiamerei la proprietaria. Ora”. Girai alla prima svolta e da

sfrecciai verso Roma. Mancavo da due anni. A ogni chilometro prendevo più coraggio per porre fine al mio esilio. Tornare a muovermi tra i miei luoghi e ricominciare a frequentare mio figlio era un bisogno impellente, sarei arrivato a indebitarmi per soddisfarlo. Corteggiai la signora finché non ci accordammo sul prezzo e divenni vicino di vicolo di Lucio. Da allora il mio motto è: “Dai retta a Dalla”. Al principio avvertii un senso di estraneità. Un tizio mi fermò in una via: “Anvedi Antonello. Che fai? ‘Ndo vai?” e io pensai, da brianzolo: “Ma che vuole questo signore?”. Solo dopo essere andato allo stadio rinacqui romano.


Il primo a mettere piede nella nuova casa fu il caro vecchio pianoforte Anelli su cui avevo composto Sora Rosa, con i tasti laterali bruciati dalle sigarette perché da sempre suono tutto in posizione centrale. Dopo entrai io, staccando il primo passo fuori dal pantano. Guardai i tetti della mia à, quelli che sognavo di notte in Stukas (dall’album Sotto la pioggia del 1982. N.d.R.), gli stessi che avevano ispirato La sera dei miracoli di Dalla (dall’album Dalla del 1980. N.d.R.). Poggiai i polpastrelli sui tasti e uscì Grazie Roma. Mi prese un colpo. Avevo la percezione che mi stesse capitando qualcosa di meraviglioso e scoprii che si può piangere di gioia. Era una canzone in cui finalmente non mi prendevo in giro. Non ero stato attento alle parole, al modo di esprimere la mia angoscia, ma l’avevo cantata e le parole erano uscite da sole, vere. E’ meraviglioso ancora oggi cantarla. Quello che rovina tutto nella musica è il tempo, la negazione della libertà dell’uomo: potessi scegliere, la suonerei lentissima. Grazie Roma nasceva per gratitudine verso la à e verso la mia squadra, essendo le due inscindibili. La composi nel novembre del 1982, la registrai l’8 marzo del 1983. Avevo fede. Sentivo che la Roma avrebbe vinto lo scudetto, altrimenti non mi sarebbe capitata una cosa simile (…)».