La penna degli Altri 26/11/2009 09:43

Non tifo per la morte



Desiderare la Roma in B per sperare che la Roma viva: un’aberrazione che mi agghiaccia il sangue. Poi, che viva dove e quando? In una vita ipotetica che non sarebbe più questa, bensì una seconda vita che non potrebbe più prescindere dalla memoria di una fine, di un atto terminale; di una morte sportiva che non sarà tanto vergognoso aver patito, ma che sarà vergognoso aver desiderato. Poiché di morte si tratterebbe. Di vera morte. Scendere in B per fallimento equivarrebbe alla fine, e non al malinconico passaggio purgatoriale susseguente alla dèbacle di un’annata storta. No, per la morte non bisogna parteggiare mai. «E’ la mia sola nemica e mi batterò contro di essa anche quando sarà qui. La rifiuterò pure nell’istante della sua vittoria», ha proclamato con irriducibile costanza dalla giovinezza sino all’estrema vecchiaia Elias Canetti, una delle massime coscienze morali e poetiche della modernità.



Facile dire: ovvio. Non è per niente ovvio, visto che le schiere di chi tifa per la morte sono sempre folte. Anche di menti assennate e temprate dall’esperienza, ma sedotte dall’idea funebre di un’ingannevole rigenerazione. Quasi che risorgere sia più facile che guarire. A volte accade, ma gli stessi Vangeli ci dicono cose terribili di Lazzaro risorto, del suo transito per l’oltretomba e del suo essere sopravvissuto pochissimo al miracolo che si sostituì alla cura. Anche Shakespeare insegna che la morte non pone alternative a se stessa. Già simularla è un atto scellerato. Lo tenta Giulietta ingurgitando il siero preparato da frate Lorenzo affinché la vita in lei dispaia. Per poche ore, le garantisce il frate. Il tempo che Romeo, avvertito dello stratagemma, rientri a Verona, si intrufoli nella cripta dei Capuleti e che lì si faccia trovare dalla rediviva per condurla con sé in un luogo dove il loro amore di sedicenni non sia più seviziato dal potere della razza adulta. La cosa non funziona. La morte è scaltra, e se evocata viene, ma mai per gioco. La notizia del finto suicidio raggiunge Romeo in anticipo sulla missiva che dovrebbe informarlo della messinscena, e il sogno tracolla. Il teatro della morte recitata produce un’ecatombe. Mi rendo conto di suonare accordi gravi, consapevolmente drammatici, ma assai meno tragici di quelli prediletti da chi oggi, senza ombra di gravità ma solo con mesta rassegnazione, va ripetendo: meglio la B, almeno tutto si risolve. Per carità, non lasciamoci sedurre dalla snervante stanchezza di questo presente che si mostra inchiodato a se stesso e privo di futuro.  Quale la vera speranza?

Che chi non intende mollare la presa sulla Roma di oggi, una Roma ancor viva poiché comunque è della

Roma di che stiamo parlando, intenda mollarla sul suo corpo in agonia? Non ci credo. Scenderemmo di categoria con l’attuale proprietà, e con l’attuale proprietà la retrocessione significherebbe estinzione. Un’eventuale rinascita non sarebbe tale, ma semmai un nascere diversi. Un nascere non più noi, forse grazie all’éscamotage di un altro nome e di altre tinte sociali. Anche la che martedì sera si è sbarazzata del Liverpool non viene da quella che fu di Hamrin e Batistuta, ma dalla Florentia Viola, così non risorta ma rifatta nel 2002, e poi nuovamente disfatta affinché le venisse consentito di ricomprarsi la defunta anagrafe. Della qual cosa i suoi tifosi non hanno perso memoria tacendone il dolore.



Non è solo alle opinioni del professor Stinchelli che contrappongo le mie, ma a quelle, spesso malamente  argomentate, dei parecchi che pur di risolvere lo stallo della crisi propagandano la repressione di ogni gioia. Poche ce ne son date, ma alcune sì, tipo l’ultima che ci ha imposto il con la tripletta al Bari. Una gioia a cui pare impossibile negarsi, eppure alcuni ci riescono. Cosa debbo supporre? Che, a compenso di un’emozione autentica, costoro abbiano stanziato le energie per simularne una posticcia nel malaugurato caso di un gol azzurropallido al prossimo derby?




Per conto mio, quandomai un esubero intellettuale dovesse farmi supporre che una forma di catarsi sia

quasi necessaria, mi basterebbe guardare un qualsiasi bimbo che abbia la Roma nel cuore. Come spiegarglielo? Come dirgli: credimi, è meglio così? Meglio sprofondare che vivacchiare. Mi domando: questo cercare di convincerlo che il meglio è nel peggio, non significherebbe un educarlo al brutto della vita?