La penna degli Altri 22/11/2009 09:33

La grandezza di De Rossi

Europa e tocca a noi giudicare. Diventa una responsabilità nostra e del mondo formulare un rimprovero senza margini di giustificazioni contro lo sfregio imposto, tramite una vittima sacrificale, all’intera assemblea dei prossimi Mondiali. Se lo merita lo sport e se lo merita l’Irlanda, l’unica che possa consentirsi di mitigare la gravità di una colpa non propria chiamando in causa la difesa sistemata male. Formulare il rimprovero tocca alla Francia stessa che, magra consolazione, sembra abbia trovato l’oncia di dignità necessaria per vergognarsi di sé. Almeno un po’. Con la consueta supponenza condita da qualche lacrima di coccodrillo.



Domenech neanche lo consideriamo. Lui, bello pimpante, già sarà passato a riscuotere gli ottocentomila

e passa euro stabiliti per la qualificazione. L’assist da pallacanestro di Henry glieli ha cacciati in tasca come rubandoli da una tasca altrui. Prendi i soldi e scappa. Anzi, no… la cosa indigeribile è che per certi figuri vale l’opposto: prendi i soldi e resta. Pasciuto ed esultante, è così che resta, a sberleffo di tutti, colmo di ignoranza calcistica e prediletto dalla sorte poiché è destino che il destino debba tenere sempre aggiornata la schiera dei tipi umani possibili, tra cui non può mancare quello di chi ti fa rodere il fegato con l’evidenza della sua inettitudine ripagata a colpi di ricchezza. Uno come Domenech riesce a godersi il fatto di essere Domenech solo poiché, essendo Domenech, è reso immune dal rendersi conto di essere se stesso: un ometto a cui tutto va bene e che si sente unto dal crisma dell’onnipotenza. Ogni suo gesto pubblico è un atto di  denigrazione del più elementare criterio sportivo.



Nella protesta globale e nel processo di autocritica nazionale, Sarkozy, astenendosi dal prendere posizione

(anche quella dei tour operator è categoria votante), si è arroccato dietro lo squallido principio che calcio e politica non vanno mescolati. Un’alzata di spalle molto francese rivelatrice di quanto la cosa gli rumini in pancia. Peccato che abbia detto una solenne fesseria.



Qui non c’entra il calcio, c’entra il rispetto dell’altro, e tanto meno c’entra la politica, semmai si dovrebbe

parlare di cultura in senso lato. Il decoro gallico è stato vivaddio salvaguardato da parecchia stampa, a

cominciare da Libération, e questo ci fa tirare un sospiro di sollievo, per nulla alimentato dalla patetica resipiscenza morale del malfattore da cui tutto è scaturito: Thierry Henrry. Ciò che ha voluto ha fatto e, per alcuni istanti dimentico delle telecamere o forse proprio in dispregio delle stesse, ha controfirmato il furto spacciandolo per un’impresa di cui gloriarsi. Che abbia festeggiato, e come l’abbia fatto, rimane iscritto a caratteri neri negli annali del pallone. E di più ancora rimane nella duratura memoria orale che non pretende la carta per maturare il racconto di un’onta.



Henry
sarà ormai per sempre l’imbroglione che ha rapinato l’Irlanda con un colpo di mano. Nient’affatto

simile a quello del Pibe de oro, che di colpi di mano non visti dall’arbitro ne avrebbe potuti fare a piacimento

sempre, in ogni partita e a dispetto di chiunque, ma lui uno solo ne ha fatto, e quello sì ferocemente politico e mai rinnegato. Un colpo di mano tradotto direttamente in gol e non infinto nella vigliaccheria di un assist che pretende una spartizione di responsabilità. Un gol determinato a dire l’ultima parola su S una guerra che aveva offeso l’intero popolo argentino. Quel gol a Shilton è stato un pensiero, un urlo da campione. Quello sì un giudizio che non ammetteva né ammette giudizi. Un gol prepotente imposto ai prepotenti. Il gol di mano più bello di tutti i tempi realizzato poco prima del gol più bello fatto con i piedi. I due più bei gol di tutti i tempi. Entrambi nella stessa partita. E’ per quel colpo di mano precedente l’altro che Maradona a me appare superiore a Pelè.



E così in Sud Africa non avremo la giusta Irlanda, che quando può mostrarsi su ribalte internazionali lo fa sempre con la gioia che le è intrinseca. La gioia di un piccolo popolo che si è battuto per la propria libertà

che l’ha ottenuta. Con l’orgoglio mai esibito di un Paese la cui capitale ha gli stessi abitanti di Bergamo e che

eppure vanta quattro Nobel per letteratura. Quattro. E fra costoro nemmeno è contemplato Joyce, dublinese

anch’egli. E ora parliamo da romanisti. Quante volte ci hanno fatto rivedere la gomitata di in Germania? Quante poche volte, invece, ci hanno ricordato quel che sempre seppe fare, sullo zero a zero, in un Roma-Messina di alcuni anni fa? L’arbitro convalidò e lui lo corresse. Aveva toccato, ammise, con un braccio. La sua grandezza, lì, non fu tanto nel dire: “E’ irregolare”, ma nel non esultare trasmettendo agli avversari la sensazione che avrebbero potuto contare su di lui. E così fu: quelli andarono dall’arbitro chiedendogli che andasse a interpellarlo e Daniele chinò il capo dando loro ragione. All’epoca ci fu pure chi lo derise, forse per esorcizzare un comprensibile vanto che non mai ha ostentato.