La penna degli Altri 10/11/2009 09:49

E' lo stesso film. Una vita difficile

Avete presente Alberto Sordi che, nelle scene finali di “Una vita difficile”, percorrendo senza meta e senza speranza a piedi un lungomare, d’un tratto si blocca e inveisce contro il mondo che passa sotto forma di automobili e di chi le guida, chiunque esso sia? Ha mille motivi il personaggio di quel film per quel gesto che pure è di insulto. E’ stato tradito dalla vita, per una vita. Deve comunicare, dare forma al suo dolore. La sua violenza è razionale anche se espressa in maniera inconsulta, è rabbia ma è voglia di tenerezza smarrita, negata. E’ un brav’uomo che per una volta, una volta per tutte, non ce la fa più a sopportare e lo grida. Avete presente quel signore che fino a non molto tempo fa stazionava, sembrava vivere al centro di Piazza Barberini? Con in testa un cerchietto che sorreggeva piccoli festoni e sonagli. Con sul volto un sorriso gentile ma malato. Con un’andatura danzante ma ripetitiva. Con sulle labbra sempre una rampogna. Ogni giorno per anni ha comunicato la sua rabbia alle auto e ai romani che passavano. Rabbia che aveva ormai perso l’oggetto originario, rabbia che non aveva più un fuori, rabbia che si era solidificata dentro di lui. Lamento che si era fatto teatro. Ripetizione del gesto che si era fatta lavoro, professione e militanza della doglianza, della sofferenza, del malessere.

Ecco, non vorrei passare io, non vorrei stessimo passando tutti, dalla prima alla seconda figura: dalla clamorosa e motivata denuncia e critica di un disagio eccezionale alla abitudine ossessiva e compulsiva all’invettiva. Insomma essere tifoso della Roma è oggi davvero “Una vita difficile” che giustifica, anzi chiama, al gesto, al rifiuto liberatorio e alla ribellione plateale. Però non voglio “finire a Piazza Barberini”, a dire ogni giorno la stessa frase, a non vedere e sentire null’altro che l’attorcigliarsi senza fine dello stesso umore e delle stesse parole su se stessi. E quindi aria, finestre aperte, fuori dall’angolo. Mi sono intristito guardandola contro il Fulham e poi rileggendola su carta la partita il giorno dopo. Mi sono depresso sentendo e leggendo Ranieri  che implora solidarietà e comprensione. Mi sono inutilmente vaccinato: vedo Rosella e contraggo influenza, mi ammalo di estraneità a questa Roma. Mi sono ingobbito sotto il peso: la squadra invecchiata, la squadra rattrappita, la rometta. Il presente grigio e il futuro grigio oscuro perché la società che le sta dietro è come la squadra: sostanzialmente immobile nella sua decadenza.

L’abbiamo visto, detto e gridato. Perché era vero e vero resta. Ora però aria, non ne posso più di respirare solo quest’aria  mesta e non voglio affezionarmi alla mestizia al punto di nutrirmene e di farne il mio solo cibo. Voglio, vorrei parlare e sentir parlare anche, e sottolineo anche, d’altro. Qual è la vera storia di Cassano fuori dal campo? Non interessa il gossip su Cassano? Bene, capisco. Allora il Milan, il nuovo modulo di gioco rossonero dimostra che si può vincere con tanti attaccanti e mezzi attaccanti tutti insieme in campo? Frega nulla del come si gioca al gioco che pure ci affascina, il calcio? Allora Calciopoli, la conferma in Tribunale che truccavano le partite e insieme l’incredibile Italia per cui Moggi è una “firma” che qualche quotidiano ospita con riguardo? Oppure la Spagna che sta per portare le tasse sugli stipendi dei giocatori agli stessi livelli del resto d’Europa, che ne verrà agli altri campionati europei se la Liga smette di essere paradiso fiscale? Oppure Platini che giura: fra due, tre anni non giocano più in Europa le squadre che spendono più di quanto incassano.

Accadrà davvero, cambierà dalle fondamenta il calcio conosciuto negli ultimi 15 anni? O le dieci, cinquanta, cento altre cose che sono il calcio. Possibile che nulla, proprio nulla ci debba incuriosire e riguardare? Possibile si debba restare immersi nel bagno ghiacciato di Unicredit sì-Unicredit no? Fasciati stretti come mummie nell’attesa messianica della “liberazione”? Incollati alla nenia, all’ipnosi tipica delle radio che per ore e ore rimasticano sempre la stessa frase? Possibile che un tifoso romanista, constatata la dignitosa povertà della squadra e l’indigenza cronica della società, altro non possa fare che rimasticare il fiele che la realtà gli ha messo in bocca? E che questo sapore amaro sia diventato obbligatorio? Io non so cosa saprebbe fare Ranieri se avesse una squadra migliore. Penso un po’ di più ma non molto. Ma rivendico il diritto a non saperlo se prima non lo provo. Io non so se Juan ha mollato, tradito o se invece è uno corretto e sfortunato.



Rivendico il diritto al dubbio, non mi sento obbligato dall’aria che tira a chiamarlo “mangia pane a tradimento”. Io non voglio, non vorrei, che la nostra partecipazione, conoscenza, informazione e passione sulla Roma diventasse una litania interminabile, un eterno rosario di fede tifosa dolente sgranato da beghine in perfetta buona fede. Mi sono annoiato di annoiarmi, mangiare il mio di fegato non mi diverte e addentare quello altrui non mi consola.