La penna degli Altri 27/10/2009 13:33

Per lor signori la crisi non esiste

In rapporto ai risultati ottenuti, soltanto la Lazio di Lotito riesce a contenere le spese, limitando il costo del lavoro, identificabile nel monte ingaggi, a 32,9 milioni di euro, dieci anni dopo la stagione del secondo scudetto e degli sperperi targati Cragnotti, nel 1999-2000. Lotito in controtendenza, che divide i calciatori della rosa in arruolabili e dissidenti, e che nel 2007-08 ha fatto registrare un attivo di bilancio di 28,1 milioni di euro, superando il di De Laurentiis, in attivo di 16,8 milioni. Unici due club col segno più. Già, perchè uno dei principali difetti degli spendaccioni italiani è l'eccessiva generosità nei confronti dei calciatori. In un club sano, il costo del lavoro deve gravare al massimo al 55% sul fatturato. La riusciva a rientrare nei parametri durante l'era Moggi, e ha visto paradossalmente crescere il peso specifico degli stipendi dei calciatori nella stagione post Calciopoli, quella della B, nonostante le cessioni di Ibrahimovic, Vieira, e Cannavaro, perchè i club nostrani non sono stati capaci di crearsi un paracadute, non diversificando gli investimenti, lasciando sempre nelle mani del risultato sportivo il proprio destino. E, nonostante la crisi, continuano a spendere.

Così Madama nel 2006-07, l'anno della fuga degli sponsor e dei soldi delle tv andati in fumo, a fronte di 186 milioni di euro di fatturato, crollato rispetto ai 251 del 2005-06, pagò 102 milioni di euro di stipendi, ossia il 54,8% rispetto agli introiti lordi del club. Nel 2007-08, 203 milioni di fatturato e 120 milioni di monte ingaggi, gravante sui ricavi addirittura al 59,1%. Alla faccia della morigeratezza: dieci anni fa, stagione 1999-2000, i milioni di fatturato erano 138 e il monte ingaggi toccava quota 77 milioni, per un rapporto fissato al 55,8%. E quelli, per il calcio, erano i tempi delle vacche grasse. Eppure John Elkann è solito prendere le distanze dalla precedente gestione, affermando che 'la non può permettere che il costo del lavoro sia l'80% del fatturato, come accaduto negli anni scorsi'. Bugia: soltanto nel 2001-02, a fronte di un fatturato di 177 milioni di euro, il monte ingaggi toccò quota 133 milioni, ossia il 75,1% del fatturato, picco giustificato dalla ricostruzione della squadra, che a fronte della cessione di Zidane, cooptava Cannavaro, Buffon, Nedved e Thuram. Nell'ultimo quadriennio 'moggiano', gli stipendi hanno gravato una media del 5% in meno, sui fatturati del club, rispetto a oggi. I fuoriclasse se ne vanno, gli stipendi aumentano.

Un principio causa-effetto che non si può spiegare. La diaspora estiva che ha allontanato dal Belpaese Kakà e Ibrahimovic, ha partorito un incremento del monte ingaggi dei club di A, salito a quota 800 milioni di euro, a fronte dei 769 del 2008-09. Nel 2007-08, i club pagavano 667 milioni ai propri calciatori. 133 milioni di euro in più per un biennio in cui le squadre nostrane in Europa hanno collezionato magre figure, sorridendo, si fa per dire, soltanto con la Roma, eliminata ai quarti di finale di dal Manchester United (2007-08). Indicativo l'aumento dei contributi previdenziali che i club versano per i propri calciato ri, cifre calcolate in rapporto allo stipendio degli stessi. Una sproporzione indicativa.

Nel 1995-96, la terza stagione retribuita dalle televisioni in seguito alla nascita di Telepiù, l'azienda calcio fatturò l'equivalente di 500 milioni di euro, e i contributi previdenziali, stando ai dati dell'ENPALS, incidevano al 4%. Sei anni dopo, 2001-02, a fronte del fatturato raddoppiato, 1,1 miliardo di euro, il peso dei contributi saliva al 12%. Oggi l'azienda calcio fattura 1,595 miliardi di euro e i contributi previdenziali pesano circa il 16% di tale somma. In 13 anni, dal 1996 al 2009, il calcio ha triplicato i ricavi, ma ha visto decuplicare le spese per gli stipendi dei calciatori.

Tollerabile finchè i diritti televisivi venivano venduti singolarmente e il calcio italiano aveva un appeal consolidato. Inammissibile nell'era più difficile per il pallone nostrano. Spese folli anche per l'età dei calciatori più pagati, coi cinque più ricchi che sono over 27: Eto'o (classe 1981, 10,5 milioni), Ronaldinho (1980, 7,5), (1976, 5,6), Buffon (1978, 5,5), Vieira (1976, 5,4). Se il Milan, registrando gli addii di Maldini, Kakà e Shevchenko, ha risparmiato circa 42 milioni di euro, con tagli obbligati per la mancata partecipazione alla 2008-09, risultando fra le big l'unico club ad aver abbassato il monte ingaggi, sono poche le società che possono vantarsi di stare al passo col tempo, di crisi, attuale: il Catania, passato da un costo del lavoro di 20 milioni di euro a 17,5 milioni; il Cagliari, da 21 a 19; il Siena da 18,5 a 17,5; il Chievo, da 14 a 13.

Gocce nel mar rosso dei bilanci. A fronte del fatturato che tocca quota 1,595 miliardi di euro, c'è un debito lordo di 2,1 miliardi, riconducibile alla mala gestione dei club nobili: Inter, , Milan, Roma e Lazio accumulano il 60% di tale cifra, 1,2 miliardi di euro. In Italia resiste il malvezzo di scendere a patti con gli agenti, affinchè siano i club a pagare ad essi la provvigione, fissata al 4% dell'ingaggio lordo annuale del calciatore, che di norma avrebbe il dovere di saldare il proprio rappresentante. In Italia è più semplice agevolare il capriccioso attaccante o il volubile difensore, magari creando l'escamotage dell'aumento dell'emolumento, per far rientrare nello stipendio anche il quantum per l'agente. Constatati gli sperperi, risulta difficile credere ai presidenti, che ostentano parsimonia. Non basta ridurre i poteri dei Direttori sportivi, un tempo plenipotenziari, oggi condizionati dall'esito dei Consigli di Amministrazione, che deliberano su acquisti e somme da investire sul mercato. Non basta negare ai propri calciatori le automobili in comodato d'uso, abitudine che resiste alla grazie alla casa madre Fiat, all'Inter, grazie al partner svedese Volvo, parzialmente in disuso al Milan, nonostante lo storico sodalizio col main sponsor Opel sia stato sostituito dal rapporto col golden sponsor Audi. Non basta negare in fase di negoziazione l'abitazione ammobiliata con canone d'affitto già pagato. Anche perchè i tagli effettuati per offrire ai media una parvenza di sobrietà non incidevano e non inciderebbero sui bilanci. Automobili, abitazioni, telefoni cellulari con schede aziendali, voli privati per i trasferimenti, conti aperti presso resort e ristoranti, non hanno mai rappresentato spese incidenti per i club, abili nel creare partnership e convenzioni con sponsor istituzionali o d'occasione. Oppure nello sfruttare le società di famiglia per coccolare i propri tesserati. Il Milan pensa ancora alla casa dei suoi calciatori, attraverso il ramo d'azienda Milan Real Estate Spa. L'aumento del monte ingaggi, l'esposizione debitoria, il continuo rischio crack, non si traduce in vittorie e predominio, anzi.

Dividendo in due l'ultimo decennio europeo, in le 'nostre' hanno racimolato gli stessi, poco lusinghieri, risultati nei due lustri. Dal 1999-2000 al 2003-04, l'Italia vanta 1 titolo di campione (Milan), il raggiungimento di 1 finale (), di 1 semifinale (Inter) e di 2 quarti di finale (Lazio, Milan). Dal 2004-05 al 2008-09, si contano 1 titolo di campione (Milan), 1 finale (Milan), 1 semifinale (Milan) e 6 quarti di finale (2 a testa per Inter, e Roma). Nelle ultime cinque edizioni di , l'Italia ha contato solo sulle imprese del Milan. Ruoli modesti per Inter, e Roma. Inter e convivono coi flop, nonostante il proprio monte ingaggi superi di almeno il 40% il costo del lavoro di club medio-grandi di Inghilterra e Spagna. Se la non sorride alle italiane spendaccione, la vecchia Coppa Uefa (oggi Europa League) le sbeffeggia: nelle ultime 10 edizioni, nessun club della Penisola ha trionfato. Per risalire a italiche imprese, bisogna riavvolgere il nastro fino al 1998-99 (Parma) e al 1997-98 (Inter), quando l'Italia era ancora l'Eldorado e comunque fatturava un terzo rispetto ad oggi, pagando un ottavo degli stipendi attuali. I conti non tornano. I presidenti ricchi piangono. Ma continuano a buttare soldi. Sperperando.