In The Box 21/04/2023 10:36
Tanti saluti a Vavra e al 'Mai 'na gioia'
LR24 (AUGUSTO CIARDI) - Jose Mourinho serviva a questo. A mettere il silenziatore alle frasi tipiche delle realtà che storicamente non vincono, e che dopo sconfitte ed eliminazioni di partite e in turni resi epici all'attesa e dalla disabitudine, riempiono la bocca dei molti che sentono l'obbligo di scadere nel luogo comune. "fa parte della storia della Roma perdere così, dopo avere dato tutto". E a quel punto irrompe sulla scena qualcuno che esclama "come contro lo Slavia Praga!". "Sì! Il gol di Vavra!".
Mourinho serviva a interrompere l'odioso compiacimento post drammi e beffe sportivi. Per fortuna che lo ha capito Dan Friedkin due anni fa. Quando tutti (quasi tutti) cercavano di capire come scalare le montagne della gloria attraverso gli schemi collaudati, a due tocchi, ripartendo dal basso, o coi quattrotrettre, lui capì e scelse una via diversa, raramente percorsa dalla Roma nei suoi quasi cento anni di storia. La via del trapianto di cervello, del cambio dei connotati, della scoperta di una realtà diversa dal solito. Urgeva mettere fine al tempo degli aneddoti da infilare come perle di plastica di bassa qualità sul filo di una collana di bigiotteria a colpi di #mainagioia, di Grazie lo stesso e di Siamo usciti a testa alta.
Soltanto un uomo poteva riuscire nell'impresa. E la Roma è stata magnifica nel presentarsi al posto giusto nel momento giusto. Non era complicato capirlo, bastava applicarsi. Ma a chi veniva in mente l'idea o acquisiva informazioni ottimistiche sulla possibilità Mourinho, consigliavano un TSO. Senza se e senza ma. Vabbè. Il presente evidenzia un allenatore diverso, per fortuna, da tutti i predecessori. Perché è diverso da ogni altro allenatore presente sul pianeta Terra. Può piacere o meno, libero arbitrio, ma non si può contestare la sua grandezza. Mourinho è un virus che entra nel sistema cerebrale dei calciatori. C'è chi scappa alla prima controindicazione, tipo Villar, che ci fece prendere una gran bella cotta, ma che si è rivelato troppo presuntuoso dopo una manciata di partite con l'Elche e pochi mesi con Fonseca a buoni livelli (presuntuoso al punto che si metteva col muso di traverso pure davanti al tecnico che nella Roma lo aveva imposto quando questi non potendone di lui lo sostituiva) per mettersi a disposizione e in discussione (peccato, aveva tutto per fare strada).
E c'è stato chi, come quasi sempre è capitato con Mourinho, ha affidato al portoghese le chiavi della propria carriera. Perché Mourinho fa parte di quella ristretta cerchia di allenatori che, oltre a cambiare la storia delle squadre che allenano, cambiano il corso della carriera dei calciatori. Roma aveva bisogno di lui. Così come in passato ebbe bisogno di Dino Viola da Aulla, che poi capì che c'era bisogno dello svedese Liedholm e insieme conclusero che serviva Falcao da Xanxere. O come quando Roma ha avuto bisogno di Capello, praticamente sloveno, e insieme a lui di Batistuta da Reconquista. Forestieri. Stranieri. Persone lontane anni luce dal modo di fare autoctono che nel calcio non ha mai pagato. Perché Roma sportivamente non è una piazza vincente e a Roma anche i romani più forti hanno sempre avuto bisogno di guide esterne per trovare la via giusta. Così come la piazza, dai tifosi alla comunicazione, che hanno sempre toccato il cielo quando ad agire è stato un agente esterno. Mourinho è l'agente esterno migliore che potesse capitare alla Roma.
Con tanti saluti al piacionesco compiacimento e all'indolente autocommiserazione. Tanti saluti a Vavra, alle ricorrenze del gol di tacco di Okaka su assist di Pit, ai gol mai segnati da Bartelt. Ai Mai 'na gioia.
In the box - @augustociardi75