Chi era Stephan da bambino?
“Un bambino con un’infinta passione per il calcio. Da subito. Sono nato con il pallone in mano, che mi ha accompagnato per tutta la vita. Appena ho cominciato a camminare mio padre mi ha portato ai giardini a giocare. Il calcio è la mia vita”.
Non ti piacevano altri sport?
“Quasi (ride, ndr). Un giorno mentre ero al parco sotto casa, un ragazzo mi regalò un pallone da basket con la mano stampata sopra di Michael Jordan. Rimasi molto colpito e andai da mio padre, dicendogli che volevo giocare a pallacanestro. Lui avvertì Dionigi Donati, l’allenatore che avevo ai tempi al Legino, che impazzì e lo pregò di farmi cambiare idea. Mio padre lo calmò e gli disse che voleva farmi almeno provare. Provai tre giorni, ma tornai a casa implorandolo di farmi tornare a giocare a calcio. Da lì non ho più smesso”.
Quando hai realizzato di avercela finalmente fatta?
“Non c’è stato un momento in particolare. Ma quando ho iniziato ad allenarmi con la prima squadra, quando ero al Genoa, sentivo che il mio sogno si stava avvicinando sempre di più. Ho sempre voluto giocare in Serie A”.
Sembra ieri, ma il tuo esordio in Serie A c’è stato dieci anni fa. Te lo ricordi quel giorno? Che sensazioni provavi? Sapevi che sarebbe arrivato il tuo momento?
“È stato tutto molto veloce, avevo 16 anni. Pensavo a giocare e a divertirmi. In quel periodo il Genoa non andava benissimo, c’erano molti infortunati. Sono andato in panchina la partita prima dell’esordio ma non entrai. Alla gara successiva, a Verona contro il Chievo, eravamo cinque Primavera tra i convocati. Jankovic aveva i crampi e il mister mi fece scaldare. In quei minuti sentivo il sogno che si stava avvicinando, sempre di più, ero teso ed emozionatissimo, ma avevo una voglia incredibile. Entrai sullo 0-0 e segnammo, fui coinvolto nell’azione del gol. Oliveira calciò in porta e segnò proprio accanto a me e andammo a esultare insieme. Fu un esordio da sogno”.
Hai sempre giocato come attaccante?
“Da piccolo ho fatto tutti i ruoli, anche il portiere. Poi crescendo sono stato mezzala fino ai Giovanissimi. Sono passato sulla fascia destra, prima di essere spostato sulla sinistra dove sono sempre rimasto: è quello il mio ruolo principale. Tranne al Padova, dove mi hanno schierato come trequartista”.
C’è un calciatore al quale ti ispiravi o che ammiravi?
“Prima era Ronaldinho, ma poi mi sono affezionato a Kakà. Andavo sempre a vedere le sue skill su YouTube, ogni giorno, quando tornavo a casa e cercavo di riproporle, mi ci allenavo. Da lui ne ho imparate un bel po’. L’ho sempre ammirato come calciatore e poi, quando l’ho conosciuto, anche come persona”.
Qual è il consiglio migliore che hai ricevuto in carriera?
“I consigli più preziosi sono sempre stati quelli di mio padre. Con lui ho trascorso tutta la mia carriera calcistica. Mi ha sempre seguito, ha cambiato lavoro e vita in funzione della mia carriera. Accompagnava me e altri miei compagni al campo. Ha fatto tantissimi sacrifici e da lui ho imparato proprio questo: bisogna farne tanti, lavorare, mantenere alte le ambizioni, non accontentarti mai. E poi di rimanere umile, a prescindere dai successi”.
Questi sono gli stessi consigli che daresti a un giovane che sta per intraprendere la carriera da professionista?
“Non accontentarsi mai e cercare di giocare a calcio con passione, la devono vivere con gioia. Da te stesso, però, devi pretendere il massimo: non basta mai quello che hai fatto”.
C’è stato un periodo particolarmente difficile che hai vissuto in carriera?
“Sì. Quando mi sono operato nel 2013 al metatarso del piede sinistro. Il mio primo infortunio in carriera. Quello forse rappresenta il giorno più brutto della mia vita. Fu una ricaduta, perché dopo uno stop di tre mesi arrivò un nuovo infortunio a dicembre, alla seconda partita dal mio ritorno in campo, con il Mondiale a pochi mesi di distanza. Con il dottore scegliemmo la strada dell’operazione, ma poi sono arrivato a recuperare solo a maggio. Praticamente sono stato fuori un anno intero”.
Cosa hai imparato da quel periodo?
“Ho capito quali erano le vere persone su cui potevo contare nella mia vita: la mia famiglia e i miei amici. Dall’esterno sono arrivate tante critiche che non mi appartenevano e che mi hanno fatto star male. Quel periodo mi ha insegnato tanto”.
Chi è il tuo migliore amico nella vita?
“Ne ho due. Uno si chiama Manuel, lo conosco da quando sono all’asilo nido. E l’altro è Aurel, lo conosco dalle medie. Abbiamo passato tantissimo tempo insieme e condividiamo tutto. Loro mi hanno supportato molto nei miei periodi più bui”.
E nel calcio a chi sei più legato?
“Ho instaurato buoni rapporti in tutte le squadre. Nel tempo magari si perdono i contatti con certi ex compagni di squadra, ma una persona a cui sono molto legato è Mattia Perin. Con lui ho fatto tutte le giovanili e abbiamo vinto lo Scudetto Primavera insieme. Qui a Roma ho conosciuto un amico: a Lorenzo (Pellegrini, ndr), con lui passo davvero tanto tempo anche fuori dal campo e abbiamo un ottimo rapporto”.
È vero che sei il più forte a biliardo nella squadra?
“Dipende. Se giochiamo con il biliardo a buche strette, come quello che abbiamo qui a Trigoria, devo dire che molti miei compagni sono migliorati. Florenzi è molto forte. Ma in quello che ho a casa, dove gioco a snooker, mi dicono tutti che sono il più bravo”.
Come nasce la passione per lo snooker?
“A me è sempre piaciuto il pool, ci giocavo spesso a Savona. Nel 2010 in televisione, però, davano solo lo snooker e mi sono appassionato a questa specialità. Era più complicato, il tavolo era più grosso, le buche più strette e c’era tanta tattica. Purtroppo in Italia non c’era un posto per giocarci. Sono stato dal 2010 al 2014 solo a guardarlo su Eurosport. Un giorno il commentatore della sfida lesse un Tweet in cui si diceva che stavano aprendo una nuova accademia a Savona, la mia città. Non potevo crederci, ho chiamato subito per ricevere informazioni. Ero al Milan e al primo giorno libero andai a provare. Da quel momento ho iniziato a giocarci, finché non mi sono comprato il tavolo e me lo sono messo qui a casa mia a Roma, dove vive anche il campione italiano, Gianluca Manoli, con il quale ogni tanto ci facciamo qualche partita”.
Qualche mese fa sei anche andato anche ai Masters a Londra a vedere la partita.
“Il giorno prima avevo segnato al Torino, il mister ci diede due giorni liberi e a Londra c’era la finale: non potevo non andare. Oltretutto si sfidavano due dei giocatori che amo di più in assoluto: Ronnie O Sullivan, il più forte di tutti i tutti in questa disciplina, e Judd Trump, che sabato verrà a vedermi anche allo Stadio".
Sappiamo che ti piace investire nel mondo digitale: ci racconti questa tua attività?
“È un’attività che porto avanti insieme a mio fratello, Manuel, al quale sono molto legato. Lui da sempre è appassionato di nuove tecnologie e del mondo digital. Tra le start up nelle quali abbiamo investito c’è Charity Stars, una piattaforma che mette all’asta prodotti ed experience donando l’80% dei ricavi in beneficenza. In generale ci interessiamo a un settore in continua evoluzione, che in Italia si sta facendo spazio molto più lentamente rispetto al resto dell’Europa, per non parlare degli Stati Uniti. Noi, però, abbiamo scelto di intraprendere questa strada: credere nelle idee significa credere nel nostro futuro”.
Quest’anno gli infortuni muscolari ti hanno fermato spesso sul più bello, in momenti positivi della tua stagione. Che giudizio dai del tuo campionato finora?
“A livello personale sono soddisfatto della continuità che ho avuto in questa stagione. Sono cresciuto, mi sento maturato come calciatore, sono cambiato in fase realizzativa e come rendimento generale. Tutto questo mi ha dato una maggiore consapevolezza dei mezzi e più autostima. A livello di squadra abbiamo lasciato tanti punti per strada, potevamo fare meglio. Ma la classifica ci lascia ancora possibilità. Siamo a un punto dalla Champions. Mancano sette partite e ci sono tutti i presupposti per centrare l’obiettivo”.
La vittoria con la Sampdoria vi ha motivato più del previsto?
“Ha davvero cambiato lo scenario che stavamo vivendo, ci ha ridato tanta convinzione e credo abbia fatto lo stesso per l’ambiente. Di punto il bianco il traguardo è diventato raggiungibile. Ora dobbiamo concentrarci per sfruttare questa occasione”.
C’è una caratteristica che la Roma ha in più rispetto alle altre contendenti per la zona Champions?
“L’anno scorso abbiamo dimostrato, con quel percorso, che siamo una squadra da Champions. Ci meritiamo di stare tra i grandi e vogliamo rivivere quelle emozioni”.
Contro l’Empoli hai superato le 100 gare con la Roma, festeggiandole con un gol e con la fascia da capitano che Florenzi ti ha passato a fine partita. Ti senti un po’ un senatore di questa squadra?
“È stata una grande emozione, un orgoglio. È la prima volta che la indosso da quando gioco in Serie A. Mi dispiace per Ale che è dovuto uscire, ma indossare quella fascia per dieci minuti mi ha dato una carica incredibile: sul campo l’ho sentita proprio. È stata una bellissima emozione, una serata speciale”.
Quella è stata anche la prima partita con Ranieri in panchina. Come ti stai trovando con lui?
“Ha cercato di dare un’impronta positiva basata sul gruppo e sull’aiuto reciproco. Ci chiede di lottare su tutte le palle e lo stiamo seguendo. È un tecnico di grande esperienza, che comunica tanto, anche con i giovani”.
Non sarà stato facile salutare Di Francesco, soprattutto dopo una sconfitta dolorosa come quella con il Porto…
“No. Un allenatore purtroppo è sempre il primo a pagare. Si è messo a disposizione, ha dato tutto quello che aveva per la Roma e per noi, ha cercato di trasmettere la sua idea di calcio. Quello che abbiamo fatto insieme l’anno scorso non si dimentica, anche lui è entrato nella storia andando in semifinale di Champions. Lascia sicuramente un bel ricordo”.
Presto farai un’esperienza con i ragazzi di Calcio Insieme, il progetto di Roma Cares. Com’è nata questa iniziativa?
“Quasi tre anni fa ho fatto un incidente, un errore che può capitare a tutti. Mi sono assunto tutte le responsabilità e mi sono proposto per fare qualcosa di socialmente utile, senza aspettare la sentenza del giudice. Spesso ho collaborato con Roma Cares in diverse attività e ho cercato di farlo anche in questa occasione. La mia intenzione era trasformare un episodio negativo in un’esperienza positiva, sia per me sia per i bambini che saranno coinvolti. Ho addirittura letto che avrei evitato il carcere con una “punizione”. Passare del tempo con questi bambini sarà tutto tranne che con una punizione. Sarà un'opportunità emozionante”.
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