Altre 14/03/2009 16:02

Diamoutene: "Ora per me ogni partita sarà una finale"

Souleymane è un nome troppo lungo. Bello, ma complicato da urlare e, forse, anche da ricordare. Meglio Dedè: più semplice, più immediato. A Diamoutene ora Dedè piace, ma quando il della Lucchese, Reggianini, glielo affibbiò lui ci rimase un po’ male. «E che nome è?», si chiese e chiese. Era un ragazzino: svelto, ambizioso e dalle idee già chiarissime. «Voglio diventare un grande calciatore e un grande uomo», confidava a diciannove anni. Oggi, che di anni ne ha ventisei, e che gioca nella Roma, ripete le stesse cose. E si racconta schiettamente. «Il mio obiettivo nella vita è stare bene con me stesso e far star bene il prossimo, aiutandolo a vivere serenamente. Ecco perchè sorrido spesso, anzi sempre. Un sorriso aiuta a vivere meglio, ti aiuta ad affrontare anche le situazioni negative. La vita è un dono meraviglioso, il sorriso è l’essenza della vita».



«Andai via di casa che avevo diciassette anni. Studiavo al liceo e giocavo a pallone, a Sikasso, la mia à, per puro divertimento. Ma quando i dirigenti dell’Udinese mi portarono in Italia per un provino, cominciai a pensare che fare il calciatore poteva non essere più soltanto un sogno. Dal Mali a Udine un viaggio di migliaia di chilometri e di speranze. Non ricordo chi fu, parlo di tecnici, a segnalarmi all’Udinese, ma so per certo che la scintilla scoccò durante i mondiali under 17 che avevo giocato con la mia Nazionale, in Nuova Zelanda. In quel torneo mi toccò di marcare un ragazzone brasiliano, tale Adriano, che tutti definivano un fenomeno. Lo marcai bene, evidentemente, perchè dopo poco tempo mi ritrovai in Friuli. Dal deserto alla neve, parlando solo francese...


Ero già un difensore, un marcatore puro. E pensare che a Sikasso avevo cominciato da centravanti: con la squadra della scuola segnavo un sacco di gol e vincevo tutti i tornei. Avevo sette anni quando, durante i mondiali italiani, mi innamorai davanti alla tv di Schillaci. Così quando giocavo con i miei amici, mi mettevo una maglietta azzurra e con la penna scrivevo dietro “Schillaci”. A quindici anni, però, scoprii Bogarde, l’olandese, ve lo ricordate? Giocava con l’Ajax, poi andò a Milan. Mi piaceva per un motivo semplicissimo: sorrideva sempre. Adesso torno in Mali solo per le vacanze o per gli impegni della nazionale, ma al mio Paese, che ha bisogno di tanti aiuti, “penso” ogni mese. Ma questa, se permettete, è una cosa tutta e solo mia, e non voglio andare oltre.

Dopo un mese con la Primavera dell’Udinese, andai a Pisa fino al termine della stagione. Era il 2000. A Pisa nessuna partita vera, solo allenamenti e allenamenti. Poi, finalmente, la Lucchese, le partite vere, il campionato; quindi il Perugia, poi il Lecce e adesso la Roma. Devo tanto a Serse Cosmi, che ho avuto a Perugia e che parlava sempre e soltanto di , il suo idolo. Lui mi ha fatto diventare uomo: mi ha insegnato che fare il calciatore è un mestiere duro e che va affrontato con la massima serietà. Sorridendo, certo, ma solo dopo gli allenamenti o dopo la partita. Ecco perchè il mio punto di riferimento è via via diventato Thuram: “cattivo” in campo e solare fuori. Lui è uno che sa sorridere. E poi ho apprezzato, e apprezzo, il suo impegno contro il razzismo. Io in certe situazioni ci sono passato, e non è stato un momento facile. Giocavo con la Berretti della Lucchese, un avversario mi rinfacciò di essere nero e io persi la testa... “Io sono nero, tu sei bianco: io ti rispetto, tu devi rispettare me: se non lo fai, io non ti rispetto“, gli spiegai. Dopo, però...


La Roma è un sogno realizzato. Adesso mi restano da giocare undici finali per essere confermato. So perfettamente che non sono ancora un difensore completo, che devo migliorare soprattutto tecnicamente e vorrei farlo qui a Roma. Zeman, che a Lecce mi ha dato tanta fiducia, ha detto che per me “il campo è troppo stretto”, ma forse si ricorda un altro Dedè: sono passati parecchi anni e sono cresciuto, anche se vivo nel pensionato di Trigoria con i ragazzi del settore giovanile. Per ora, sto bene così: devo, anzi voglio ancora capire tante cose di Roma. Intanto, ho capito che è davvero speciale. Confesso che quando l’ho affrontato da avversario, spesso mi sono emozionato, quasi intimorito. è la Roma. Ma qui ho scoperto che è un uomo semplice, sincero. Sto qui da un mese e mezzo, e mi sembra di starci da un anno. L’altra sera, all’Olimpico, ho pianto, l’hanno visto tutti. Non ero tanto dispiaciuto per me quanto per il dolore che stava provando la nostra gente, che ci aveva accompagnato passo dopo passo, con affetto infinito, da Trigoria allo stadio e poi durante tutta la partita. A me, sinceramente, non era mai capitato di piangere dopo una sconfitta. Se mai, mi era capitato di calciare un rigore, con il Lecce contro il Bari, alla fine del 2006: lo decise - a sorpresa - Zeman, io non mi tirai indietro e segnai. L’altra sera ero pronto a calciare, anzi avrei dovuto farlo subito dopo Tonetto, Baldini me lo aveva già comunicato».